25 aprile, difesa della democrazia e rilancio dello stato sociale

Il misero spettacolo a cui stiamo assistendo sulle celebrazioni del 25 aprile, anniversario della Liberazione del nostro paese dall’occupazione nazi-fascista nonché atto fondativo della Repubblica italiana, è espressione di una crisi valoriale della democrazia che va ben oltre le speculari (e strumentali) posizioni assunte in questi giorni dalle due forze politiche della maggioranza di governo.

di Adriano Manna

Non è questa la prima volta che un esponente della maggioranza di governo annuncia che non parteciperà alle celebrazioni della Liberazione (ricordate l’ex Primo ministro Silvio Berlusconi?), e forse questo è stato uno dei veri campanelli di allarme del passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, poiché prima della caduta del muro di Berlino e delle trasformazioni nell’assetto politico dei paesi dell’Europa occidentale innescate dal crollo del socialismo reale, l’antifascismo inteso come una sorta di “religione laica di Stato” (si legga questo interessante articolo di Valerio Renzi al riguardo) appariva, almeno nella forma, come minimo comune denominatore delle maggiori forze parlamentari italiane.

Da tempo quell’argine di civiltà si è rotto, in Italia come altrove in Europa, e questo ha coinciso con lo sdoganamento nel senso comune prima, ed elettoralmente poi, di quelle forze politiche ultra-reazionarie che un tempo avrebbero avuto un’agibilità politica circoscritta ai circoli dell’irriducibile alta borghesia nera e a qualche sacca di sottoproletariato.

La questione di fondo potrebbe essere relativa ad un equivoco sulla natura stessa della guerra di Liberazione, e in particolare sulla forma di Stato, del tutto peculiare, che è emersa dal patto sociale instauratosi sui rapporti di forza generati dalla guerra partigiana.

Il prodotto della guerra di Liberazione in Europa occidentale è stato lo Stato sociale, forma di stato peculiare, frutto di una formidabile sintesi tra il paradigma liberal-democratico antecedente alla seconda guerra mondiale e le aspirazioni egualitarie delle forze social-comuniste, forti dell’autorevolezza derivante dall’enorme tributo di sangue donato alla guerra di Liberazione in tutta Europa.

Dagli anni ’90 in poi, con una coincidenza tutt’altro che casuale col crollo del campo socialista ed il conseguente mutamento dei rapporti di forza su scala mondiale, si è avviato in tutto l’occidente un radicale processo di privatizzazioni accompagnato da un graduale smantellamento del welfare state e da una deregolamentazione del mercato del lavoro (questa, in realtà, già avviata dagli anni ’80 in seguito alla sconfitta del ciclo di lotte operaie che aveva contraddistinto il decennio precedente).

La retorica dell’antifascismo istituzionale, completamente svuotata di ogni significato derivante da quel patto sociale, appare oggi debole e nella sostanza facilmente ignorabile anche da rilevanti forze governative. Si tratta di un fatto che non va assolutamente minimizzato, perché contribuisce ad abbassare quegli anticorpi culturali che avevano protetto in passato la dialettica pubblica del paese tutto, e degli strati popolari nello specifico, dal tentativo di egemonia delle forze più reazionarie.

Oggi il tempo della retorica appare esaurito: senza una proposta politica di massa che abbia come obbiettivo di minima la riproposizione, anche in forme più aggiornate, di quelle seppur timide politiche redistributive che avevano permesso alle democrazie europee di consolidarsi nel dopoguerra, troveranno sempre più spazio e consenso forze politiche spiccatamente reazionarie, con tendenze talmente regressive da mettere in crisi la stessa tenuta istituzionale del nostro ordinamento democratico.

La questione non riguarda unicamente il campo della sinistra, dove ancora oggi il maggior partito del centro-sinistra (che piaccia o meno, ad oggi è il PD) sembra culturalmente incapace di segnare anche solo un timido segno di cesura col passato recente improntato al più disgraziato liberismo di stampo blariano, ma dovrebbe riguardare anche le forze di altro orientamento politico-culturale dello spazio progressista, fosse anche solo per una elementare questione di difesa delle istituzioni democratiche per come le abbiamo conosciute dalla, seppur incompleta, attuazione della Costituzione del ’48.

Il rischio non è ovviamente quello di una nuova marcia su Roma: non torneranno le camicie nere, e quelli che oggi vedete inneggiare apertamente al Fascismo rimarranno sempre e solo piccoli “gruppi di disturbo” manovrati dall’alto.

Il rischio è piuttosto quello a cui stiamo assistendo in questi ultimi anni: un consolidamento di quello che è stato il processo di smantellamento dei diritti del lavoro avviato nei decenni scorsi, attraverso la compressione degli spazi di partecipazione democratica e l’instaurarsi di una propaganda, anche istituzionale, finalizzata ad una costante guerra tra poveri. La conseguenza più immediata sarà l’impossibilità di organizzare il mondo del lavoro in forma politicamente autonoma.

L’assenza di una forza politica che rappresenti in maniera autonoma il mondo del lavoro organizzato in Italia è oggi probabilmente più imputabile ad una responsabilità soggettiva delle classi dirigenti di sinistra che non dovuta a elementi oggettivi di natura sociale o istituzionale. Ma gli ostacoli, senza un’immediata capacità di reazione delle forze politiche e sociali espressione del mondo del lavoro, potrebbero assumere caratteri inquietanti.