Amministrative 2021: vince il centro-sinistra, ma è crisi di partecipazione democratica

Con i ballottaggi di domenica 17 e lunedì 18 ottobre si sono ufficialmente chiuse le elezioni amministrative dell’autunno 2021, con le quali si è rinnovata carica di sindaco di moltissime città italiane, praticamente tutte le più grandi e molti altri rilevanti capoluoghi di provincia.

di Adriano Manna

Questa tornata elettorale ha consegnato un indubbio successo alla coalizione di centro-sinistra, che ha conquistato lo scranno del primo cittadino a Roma, Torino, Milano, Napoli, Bologna e tanti altri capoluoghi di provincia, lasciando alla destra la riconferma di Trieste come unica nota positiva nella disfatta generale.

Eppure, al netto dei comprensibili festeggiamenti della scorsa serata, emergono da questa consultazione alcuni elementi che il PD e soci farebbero bene ad analizzare.

Il primo dato è quello relativo all’astensionismo: si è recato alle urne appena il 43,94% degli aventi diritto, il dato più basso della storia repubblicana. Numeri sconcertanti, che oltre a relativizzare una vittoria elettorale che è espressione di un consenso sempre più minoritario nella società reale, pone una gigantesca questione di tenuta delle istituzioni democratiche. Appare sempre più evidente il cortocircuito che si è venuto a creare nel sistema della rappresentanza politica, con enormi parti della popolazione, specialmente tra i ceti subalterni, sempre più portati alla passivizzazione politica.

Se andiamo infatti ad analizzare come è distribuito nella società il dato dell’astensionismo, appare sempre più evidente come questo stia diventando un fenomeno inversamente proporzionale al reddito, con una chiara matrice classista che ormai contraddistingue la percezione stessa dell’utilità della politica. L’inutilità del processo di partecipazione democratica come strumento per migliorare la propria esistenza è ormai la percezione maggioritaria nelle periferie più povere dei grandi centri urbani, dove la percentuale di votanti in molti casi ha fatto fatica a superare il 30% degli aventi diritto.

Tornando più specificatamente al centro-sinistra e in particolare al Partito democratico, appare evidente come per il partito di Letta diventi ora fondamentale definire in maniera chiara i contorni della propria coalizione, poiché il meccanismo a doppio turno che ha permesso ai democratici di sfruttare nei fatti il potenziale della coalizione senza definirla in partenza non ci sarà alle prossime politiche, e la compatibilità tra le forze centriste (quelle di Calenda e di Renzi nella sostanza) con il Movimento 5 Stelle, che ha a sua volta violente frizioni interne proprio sulla sua collocazione dentro o fuori la coalizione, è tutta da dimostrare.

Risulta invece ormai ridotta alla completa marginalità politica la sinistra radicale, che fatta eccezione per la coalizione creata alle regionali calabresi intorno alla figura di Luigi De Magistris, capace di raccogliere il 15% circa di consensi, raccoglie nelle principali città italiane cifre da prefisso telefonico.

La frammentazione del campo della sinistra di alternativa (che in città come Roma ha sfiorato il ridicolo, con 5 candidati sindaco a sinistra del PD) è sicuramente una chiave di lettura valida, come dimostra il discreto risultato raggiunto a Torino dal candidato unitario Angelo D’Orsi, che con l’appoggio di tutte le piccole formazioni della sinistra radicale è riuscito almeno a racimolare un dignitoso 2,5%. Tuttavia c’è dell’altro: l’assenza di un progetto di ricomposizione politica di quel campo che vada oltre il discorso meramente elettorale, sembra che stia progressivamente permettendo una sempre più profonda penetrazione della cultura del “voto utile” in quello che era il serbatoio di consensi della sinistra antiliberista, una dinamica che se non invertita porterà al definitiva scomparsa tutta quest’area politica.