Cosa resta del Black Lives Matter

Era il 25 maggio quando tra la 38a strada e Chicago Avenue di Minneapolis si consumava la morte di George Floyd, soffocato senza pietà dall’agente di polizia Derek Chauvin (quando si dice “un nome, una garanzia”) sotto gli occhi increduli dei passanti e l’inerzia dei colleghi, rimasti lì a guardare. Le scene dell’orrore riprese da alcuni testimoni divennero virali in poche ore in tutto il mondo. Da quel giorno, ondate di manifestazioni, flash mob, raduni pacifici presero luogo a Milano, Londra, Roma, Madrid, Berlino, Basilea … persino a Mosca! Rivendicazioni da parte delle comunità afroamericane e solidarietà a queste che hanno riportato alla ribalta nelle piazze statunitensi ed europee il movimento “Black lives matter”.

di Arianna Recine

Un’occasione unica, pane per i denti dei media internazionali alle prese con le noiose, solite notizie sulla pandemia e sui paesi pronti o meno alla riapertura.

L’impeto e la portata di tali dimostrazioni era quasi tangibile e si percepiva come una vera a propria rivoluzione in atto.
Il tempo di qualche settimana per digerire le notizie e giù la prima statua! Il 7 giugno gli abitanti di Bristol si sono svegliati con quel desiderio incontenibile di abbattere la statua del trafficante di schiavi Edward Coltson e di gettarla nel porto. Ma il furore e la veemenza contro l’iconoclastia razzista non si ferma anzi si insinua ovunque, alimentato dalla giusta dose di indignazione che solo i nostri social sanno offrirci. Lo stesso giorno infatti, a Londra, Winston Churchill avrà una sorte meno tragica, si aggiudicherà solo la scritta was a racist, atto non meno controverso del primo. Poteva farla franca allora Cristoforo Colombo? Impossibile. E infatti è stato decapitato sulla pubblica piazza a Boston, un allestimento scenografico da far invidia al più spietato militante dell’Isis. Il nostro Indro Montanelli invece, se l’è cavata con una secchiata di vernice rosa e l’appellativo di “stupratore”.

Quindi a un certo punto, l’illuminazione: il politicamente corretto deve a tutti i costi imporsi sulla ragion d’essere delle statue, pertanto verrebbe da chiedersi; lo stesso vale anche per l’arte? Perché se così fosse, seguendo tra l’altro lo stesso filo logico, ben poche opere passate al vaglio revisionistico della storia si salverebbero.

Ma al di là di considerazioni opinabili, ciò che non è passato inosservato è come un episodio di violenza perpetrato oltreoceano abbia innescato un effetto domino di solidarietà nelle piazze. La stessa che ci si augurerebbe di veder presente con la stessa dose di concitazione quando migranti irregolari muoiono nei nostri campi per mano criminale del caporalato o annegano nelle nostre acque. Ce ne sarebbero tanti altri di esempi perché gli “ultimi” sono innumerevoli e pagano anche il costo del nostro silenzio.

Ad ogni modo, una risposta forse c’è ed è quella fastidiosissima spettacolarizzazione della tragedia che se viene dagli USA ci travolge e inonda la nostra informazione per settimane ma se a fare le spese dell’ingiustizia è per l’ennesima volta il popolo palestinese che si vede annesso illegalmente 1/3 del suo territorio da Israele, condannato anche alla rabbia di vederselo chiamare “piano di pace” e probabilmente ad ulteriori perdite di vite, allora si può anche solo fare un accenno di sfuggita e destinare quella notizia dritta nel dimenticatoio dei suoi fruitori.

Ed eccolo lì, il capitalismo che perde l’ennesima occasione per starsene al suo posto e dunque, perché non far diventare Black lives matter un vero e proprio brand? Inserzioni pubblicitarie dei vari siti di vendita online propongono t-shirt e gadget di ogni tipo che ne riportano il motto. L’industria dei videogiochi si schiera apertamente contro ogni forma di razzismo al punto che Sony decide di posticipare la presentazione della nuova Playstation 5 “per lasciare spazio e visibilità ai messaggi veramente importanti per la collettività”. Fermo restando il dubbio più che lecito su quanto una multinazionale possa essere sincera nel suo impegno sociale, questa affermazione profuma di benaltrismo. Netflix dalla sua, come al solito cavalca l’onda e propone una raccolta di 40 titoli tra serie-documentari e film per omaggiare il tema “del momento”.

Insomma, che fosse un fuoco di paglia era intuibile ma che fine ha fatto oggi il movimento Black Lives Matter?

Proprio ora che le proteste sembrano essersi ridotte a poche, timide e sparse dimostrazioni in America e pressoché scomparse in Europa, non solo nelle piazze ma anche dalle priorità delle nostre agende news, eccolo lì Joe Biden, il candidato democratico alle presidenziali USA 2020 con la sua trovata per niente casuale, in perfetto stile americano, che butta giù il suo asso nella manica con la candidatura di Kamala Harris a vicepresidente nella corsa alla Casa Bianca. Nera, per metà asiatica e udite, udite… donna. E aggiungiamoci anche un bel primato mondiale, essendo la prima candidata afroamericana alla vicepresidenza nella storia degli Stati Uniti. Sembrerebbe la ricetta perfetta per sconfiggere Donald Trump, considerando quanto ci piacciono questi colpi di scena. Le donne si riempiono il petto di orgoglio perché si sentono rappresentate, una buona parte dell’elettorato nero e asiatico è assicurato, insomma una strategia che non fa una piega.

Bisognerebbe indagare però sul perché si hanno gli occhi bendati e non ci si accorge che appunto di una strategia si tratta, mascherata da spirito democratico-paternalistico benevolo, piuttosto che di una genuina volontà di inclusione e rappresentazione. Perché le donne sono sempre esistite, le minoranze sempre state in mezzo a noi e il vero atto rivoluzionario sarebbe agire senza fini di ogni sorta se non in nome della giustizia sociale.