L’Europa stereotipata e le ragioni della metamorfosi comunista. Riflessioni sul nuovo libro di Luciano Canfora.

Il centenario della nascita del Pci è l’occasione giusta per tornare a ragionare criticamente sulla sua vicenda storica. Lo fa con la consueta erudizione e vis polemica Luciano Canfora con La metamorfosi (Laterza, Roma 2021) che è in primis la storia di un rovesciamento valoriale attuato per “progressive trasfigurazioni”, quello operato nel corso della lunga storia del Pcd’I, Pci, Pds, Pd.

di Tommaso Visone

Lo stesso è altresì la storia di una “sconfitta” o, nel caso migliore, di una lunga “battuta di arresto” che è ben rappresentata dall’adesione degli eredi di quella storia al binomio – per l’autore una sorta di pleonasmo – “liberismo-europeismo”. Quest’ultimo, si legge nel testo, rappresenterebbe il rovesciamento dell’originario internazionalismo anticapitalista che fu proprio del partito emerso dalla scissione di Livorno.

Tale sconfitta è attribuita dall’autore non solo al Pci, ma a tutto il sistema dei partiti sorti alla fine del fascismo, che sono stati soppiantati da un spazio politico “diventato sempre più un business economico” nel quale si apre una prateria vastissima “davanti agli appetiti personalistici degli arrivisti senza principi”. Spazio che, specialmente in tempi recenti, ha visto “il coronamento della disintegrazione della politica in direzione affaristico-plebiscitaria”. Di tale quadro, segnato dal trionfo del capitalismo e del nichilismo, l’autore non pretende di ricostruire le ragioni complessive, soffermandosi invece sulla parabola specifica del Pci. In merito a quest’ultimo, grande rilievo è data all’opera di Togliatti e alla sua “seconda fondazione” del partito nel 1944.

Sotto la guida del “Migliore” si sarebbe infatti costruito un “partito nuovo”, “nazionale”, “di massa”, “che partecipa al governo e intende restarvi”, capace di riorientarsi verso un necessario “gradualismo riformista” e in grado di costruire una stagione “straordinaria e feconda di successi”. I suoi successori – Berlinguer in primis – non sarebbero stati invece in grado di capire che “a partire dalla sua seconda nascita nel 1944, il Pci aveva man mano percorso una strada che gli imponeva, come compito storico, di occupare lo spazio della socialdemocrazia nel panorama politico italiano”. Tale “ostinata volontà a non prendere atto” di questo ruolo “è stata la matrice della crescente inconsistenza progettuale e “svogliatezza” pratica, oltre che della progressiva perdita di contatto con i gruppi sociali il cui consenso veniva dato ottimisticamente per scontato”.

A chi scrive tale quadro, sia pur difeso autorevolmente da un grandissimo studioso, non appare del tutto convincente. L’innegabile rilievo storico di un personaggio che ha inciso profondamente sulla storia della democrazia italiana come Palmiro Togliatti (e del Pci da lui diretto) non ha infatti coinciso, sul piano dei risultati politici, “con una stagione straordinaria e feconda di successi” per il comunismo in Italia. Non solo il Pci nel 1947 – dietro richiesta statunitense – venne estromesso dal governo in cui intendeva restare, ma l’Italia, a dispetto dell’opposizione comunista, aderì alla Nato (1949) rendendo il “riformismo” togliattiano impraticabile. Le riforme volte a “incidere sulla struttura stessa del capitalismo” proposte da Togliatti non videro mai la luce, e se vi fu un riformismo in grado di ridurre “il potere del capitale sul lavoro” (per citare Rossana Rossanda), questo fu messo in campo da forze di maggioranza che – nonostante fossero attraversate da componenti chiaramente anticapitaliste (il che vale, ricorda giustamente Canfora, anche per la Dc) – agirono sempre con intenti “modernizzatori” che non miravano allo smantellamento del capitalismo, ma a un compromesso progressivo interno allo stesso. Parafrasando Olof Palme, si voleva al massimo tosare la pecora del capitalismo, non ucciderla o mettere le premesse per tramutarla in una capra. Insomma, al Pci di Togliatti – e non solo – mancò proprio la pratica di quel tipo peculiare di riformismo auspicata da lui stesso, che non vide mai la luce.

Tutto questo ovviamente non sminuisce il peso e l’importanza di Togliatti, che vivendo nel contesto della Guerra fredda – e avendo, oltre alle sue convinzioni, precise indicazioni da Mosca – aveva uno spazio di manovra ridotto. Tuttavia porta necessariamente a relativizzare la “stagione straordinaria” del comunismo italiano degli anni del “Migliore”, e a porsi alcune domande che vanno dritte alle ragioni della metamorfosi del Pci. Innanzitutto: era praticabile il riformismo di cui parlava Togliatti? Definirlo semplicemente come quello della “socialdemocrazia classica”, sulla scia di Canfora, sembra riduttivo, in quanto all’epoca vi era l’esempio – ignoto all’epoca della socialdemocrazia classica – dell’Unione sovietica. Togliatti, in questo “stalinista” (come scrisse Costanzo Preve), considerava il modello produttivo dell’Unione Sovietica superiore allo stagnante sistema produttivo capitalista. In tal senso si spiega nel “Migliore” la saldatura di una lettura storicista della storia con un’analisi marxista dello sviluppo delle forze produttive: i comunisti, pensava, fanno bene ad accettare la democrazia e a operare gradualisticamente al suo interno in quanto il tempo lavora dalla loro parte. Il capitalismo non riuscirà a sviluppare a pieno le forze produttive, mentre il socialismo (che ha alle spalle il modello sovietico) ci riuscirà.

Ora sarebbe facile ricordare come proprio a tale storicismo – “una totalità vuota in cui trionfa l’empiricità” (secondo Cesare Luporini) – le analisi convergenti di Augusto del Noce e Albert Camus avrebbero legato l’esito nichilistico del comunismo novecentesco. Il che basterebbe, volendo guardare la cosa con gli occhiali di due autori non comunisti, per comprendere una ragione profonda della “metamorfosi”. Ma sarebbe chiudere la questione senza esaminarne più a fondo l’andamento storico, e senza entrare nel merito della prospettiva delineata da Canfora. Tornando al “riformismo” togliattiano, si vedrà quindi come poggiasse sulla convinzione della superiorità produttiva del sistema sovietico, che tuttavia avrebbe presto mostrato i suoi limiti: come disse l’esperto di economia sovietica della C.I.A., Rush Greenslade, nel 1966, solo due anni dopo la morte di Togliatti, “the slowdown of economic growth in the U.S.S.R. is now a well-known story”. Difficilmente quindi la strategia riformista di Togliatti, anche se attuata, avrebbe portato ai risultati previsti.

Ma c’è di più. Siffatta convinzione relativa alla superiorità sovietica (e alla concezione “stagnazionista” del capitalismo) avrebbe portato Togliatti a sottovalutare il potenziale trasformativo iscritto nel capitalismo stesso, e a non cogliere, nonostante non fosse pregiudizialmente ostile all’europeismo, la portata rivoluzionaria di quanto si stava allora aprendo tramite i primi passi dell’integrazione europea. Su questo punto, le distanze con il partito socialista di Nenni nel 1957 sono notevoli, e indice – oltre che di un diverso collocamento internazionale – di due analisi diverse. Nel Pci quella che avviene è non tanto e solo una critica, anche sacrosanta dei trattati di Roma, quanto una vera e propria demonizzazione del tentativo in corso, a cui venne attribuito di tutto: di dividere ulteriormente l’Europa, di creare nuove tensioni internazionali, di supportare il colonialismo francese (unico punto su cui vi era qualche ragione), di sacrificare l’agricoltura italiana, di impedire le riforme strutturali, ecc.

Su questa scia che univa diffidenza e sottovalutazione, nonostante gli sforzi di Giorgio Amendola (unico vero ‘leader’ ‘socialdemocratico’ nella storia del partito) e in seguito dei miglioristi, la riflessione politica sull’integrazione europea per la maggior parte dei membri del Pci fu sostanzialmente reattiva e piena di stereotipi. Le Comunità e in seguito l’Unione (ma qui siamo già nel mondo del Pds/Ds e di Rifondazione) non furono l’oggetto di un’analisi profonda – con le eccezioni, tutte diverse tra loro, di Giorgio Napolitano, Lucio Magri, Biagio De Giovanni e pochi altri – né divennero il terreno principe su cui battersi al fine di costruire un futuro diverso. A riguardo neanche Altiero Spinelli, candidato come indipendente al Parlamento italiano ed europeo nelle liste del Pci, riuscì a lasciare un’impronta duratura (con l’eccezione dell’area migliorista). Di fatto, il mondo delle Comunità europee è stato a lungo considerato dal grosso dei militanti comunisti come uno scenario secondario rispetto a quello della battaglia nazionale, con il risultato di aver lasciato mano libera nel costruirlo ad altri uomini e culture. Per la questa ragione i comunisti hanno spesso ridotto a una macchietta l’immagine dell’Ue e il suo funzionamento, il che è ancora oggi valido sia per i critici ‘euroscettici’ rimasti comunisti che per gli ‘europeisti’ del Pd.

Una dimostrazione ce la offre, purtroppo, lo stesso Canfora quando parla della Commissione europea “che nessun elettorato ha designato”. Ora, senza volersi nascondere i problemi di democraticità complessiva del sistema dell’Ue, si dovrà sommessamente far notare che la Commissione europea ha solo in parte la funzione di un esecutivo, essendo essa al tempo stesso la garante dell’applicazione dei trattati e promuovendo l’interesse generale dell’Ue (art.9D del TUE). Ma, nonostante questo, la Commissione risulta designata tramite una modalità di selezione che la rende, da un punto di vista istituzionale, più connessa all’elettorato rispetto a un governo nazionale di tipo parlamentare. Infatti, non solo il presidente della Commissione è eletto dal Parlamento europeo – ovvero deve avere la fiducia del Parlamento come il presidente del Consiglio italiano (per inciso, sia Giuseppe Conte che la Von der Leyen erano ignoti agli elettori prima del voto per i rispettivi parlamenti); ma i singoli commissari, a differenza dei ministri nazionali, devono essere valutati uno a uno dal Parlamento europeo sulla base del loro programma. Credo sia ancora viva in Italia la memoria, per fare un esempio, di Rocco Buttiglione che, designato Commissario nel 2004 da José Barroso, vide la sua nomina respinta dall’emiciclo europeo per le sue posizioni sull’omosessualità e sul ruolo della donna. Chi scrive non può non chiedersi quale sarebbe potuto essere, a gran discapito della nostra efficiente democrazia, il destino di brillanti ministri come Luigi di Maio o Lucia Azzolina se si fosse adoperato un tale metodo anche in Italia.

Vi è quindi un problema culturale degli eredi del Pci con l’Ue. Ha ragione da vendere Canfora quando dice che i “contenuti concreti” dell’europeismo del Pd non vengono “mai definiti se non con genericità” e che tale europeismo rischia di essere la maschera di un “internazionalismo dei benestanti”. Tuttavia, di altrettanta vuota genericità sono in media le osservazioni che riceve l’attuale Unione da parte dei critici provenienti dallo stesso mondo. Entrambe queste genericità emergono da una mancata riflessione, problematizzazione e conseguente azione. Per riprendere le parole del 1992 di Lucio Magri, che di un certo “europeismo” fu critico ante litteram, “occorrerebbe costruire una sinistra politica e sindacale, riconquistare un’autonomia culturale rispetto alla genericità retorica dell’europeismo degli ultimi anni. Su questo terreno il ritardo è però grandissimo. C’è, e opera, un soggetto politico culturale forte, organizzato nel capitale internazionale. Esso ha i suoi strumenti nella circolazione dei capitali, addirittura una lingua propria: l’inglese impoverito dei manager. La sinistra invece, e in generale le forze politiche democratiche, come soggetto europeo quasi non esiste”.

La questione, oggi più rilevante che mai, è quindi: perché questo soggetto non esiste? La risposta non potrebbe avere a che fare con la totalità internazionalismo/partito nazionale – due opposti speculari che definiscono lo stesso mondo – che non ha fatto altro che chiudere progressivamente l’azione del comunismo in uno spazio vuoto di fatalismo e impotenza, mentre il capitale globale si muoveva su due livelli (nazionale e internazionale, interno e esterno, locale e globale) usando gli stati nazione, i loro stessi confini e le istituzioni internazionali per creare una sua classe di riferimento transcontinentale e una sua narrazione egemonica capace di sfruttare i punti ciechi del vecchio sistema? Non potrebbe darsi, infine, che continuare a pensare nei termini di un nuovo internazionalismo (che conserva al suo centro l’opzione nazionale) sia strategicamente perdente e anche contrario alla parte più avanzata della riflessione sviluppata dalla stessa tradizione comunista, ben prima della nascita del “partito nuovo”? Come non pensare al passaggio, messo bene in luce da Francesca Izzo, che Gramsci fece nei Quaderni dall’internazionalismo al “cosmopolitismo di tipo nuovo”, su cui poco si è concentrata la riflessione nello stesso mondo comunista? Soluzione, quella del cosmopolitismo, a cui sono arrivati anche autori come Massimo de Carolis che hanno riflettuto acutamente sulla natura del neoliberalismo e del suo tramonto.

In tal senso, dunque, la critica costruttiva da fare oggi ai soggetti prodotti dalla “metamorfosi” è quella di cercare di guardare con occhio critico e non banalizzante all’Ue, sia che la si voglia riformare dall’interno (sulla scia di Napolitano) che la si voglia superare democraticamente rifiutandone le logiche (sulla scia di Magri). A riguardo non è dal vicolo cieco di un’impossibile socialdemocrazia togliattiana che occorre tirare le fila della storia del Pci. Bisognerebbe invece, e questo è il segno più profondo lasciato dal “partito nuovo”, riconoscere gli esiti nichilistici dello storicismo togliattiano – fondato sulla percezione di una “superiorità” accecante e oggi (e non solo) ingiustificabile – e unirli all’incapacità ideologica di abbandonare, anche in tempi recenti, il modello dualistico partito nazionale/internazionalismo. Incapacità che si è troppo a lungo sposata con una visione stereotipata dell’integrazione europea (non importa se scettica o meno), che si è a sua volta innestata su una lunga sottovalutazione delle capacità produttive del capitalismo: il quale, semmai, va sfidato oggi su un terreno nuovo, ovvero quello della rivoluzione produttiva e comunicativa/informativa delle ICT e della robotica da considerare criticamente insieme al ruolo della finanza globale.

La domanda su cui si chiude il libro – “potrà la odierna socialdemocrazia (fenomeno in prevalenza europeo), scoordinata com’è e frastornata, reggere alla prova della vittoria planetaria del capitale finanziario” – suona quindi come una domanda retorica, la cui risposta è no, non potrà. Ma se gli eredi delle varie tradizioni del mondo socialista inizieranno a definire delle soluzioni nuove, partendo da analisi storiche coraggiose, allora forse tale risposta resterà possibile. Senza tali innovazioni il morto continuerà ad afferrare il vivo.