Il dramma dei braccianti a San Ferdinando in Calabria

Ancora un morto a San Ferdinando. Nei giorni scorsi ha perso la vita a causa di un incendio divampato nelle baracche il ventottenne bracciante senegalese Moussa Ba.

Intervista cura di Nicola Cucchi

Il quinto morto nell’accampamento ha indotto il prefetto di Reggio su spinta del Viminale ad annunciare lo sgombero della tendopoli di San Ferdinando. Si è mossa una macchina istituzionale piuttosto complessa, che ha coinvolto il sindaco per la firma dell’ordinanza, la prefettura e la questura, con circa 500 agenti sul posto.

Abbiamo deciso di intervistare Massimo Lauria, un giornalista freelance che da anni segue la situazione a nome di Radio-televisione della Svizzera Italiana (RSI News) insieme al collega Gilberto Mastromatteo.

 

Come si è arrivati alla situazione di questi ultimi due anni, tra incendi e 5 morti?

La situazione delle baracche a San Ferdinando (nella piana di Gioia Tauro), nate nel 2011, è stata sempre trascurata. Gli ultimi incendi, divampati a intermittenza regolare negli ultimi due anni, hanno portato l’attenzione/l’interesse dei media su una situazione di sfruttamento.

Negli anni la tendopoli di San Ferdinando è diventata l’accampamento informale di migranti più grande d’Europa. I braccianti, che provengono da quasi tutta l’Africa occidentale, accorrono per la raccolta delle arance. In assenza di contratti di lavoro regolari, documenti e possibilità di affitto si sono abituati a vivere in baracche malsane, costruite con plastica e materiali di risulta, tra i quali pannelli di amianto. E sono sfruttati nei campi, quando va bene a 25 euro a giornata. Una vicenda infinita, quella dei lavoratori stagionali africani della piana di Gioia Tauro che, nel gennaio del 2010, a Rosarno, si erano ribellati ai caporali, provocando la reazione violenta di alcuni residenti.
Della rivolta da una testimonianza forte il film “Mediterranea” girato dal regista Jonas Carpignano che poi riscuoterà un incredibile successo con il film “A ciambra” altro punto di vista sulla realtà di Gioia Tauro).

 

Come siete arrivati a raccontare questa notizia e perché avete deciso di seguire nel tempo la situazione?

Da tempo volevamo fare il punto sulla tendopoli dimenticata. Poi, l’incendio del luglio 2017 ha riacceso quasi naturalmente i riflettori sulla tendopoli e sulle condizioni di lavoro nella piana di Gioia Tauro, così abbiamo deciso di raccontare quella realtà con il breve doc “I bronzi di San Ferdinando”.

In quell’occasione abbiamo testimoniato come i migranti africani lavorassero quasi tutti a chiamata e senza contratto. La paga era di un euro per ogni cassetta di arance raccolte. Alla fine della giornata, il salario medio non supera i 25 euro. Da questi vanno detratti i soldi per il servizio di trasporto abusivo, gestito dai caporali. Tre euro per l’andata e altrettanti per il ritorno.”.

 

 

Qual è stata la risposta delle istituzioni al primo incendio?

Il primo tentativo di sgombero della tendopoli di San Ferdinando è iniziato il 18 agosto, ha coinvolto circa 600 migranti, ed è stato predisposto dalla prefettura di Reggio Calabria. Uno spostamento verso nuove tende, circa una settantina, che ospitano otto letti ciascuna, per dare alloggio agli abitanti del vecchio accampamento. Si accede con un badge, con annesso controllo delle impronte digitali, telecamere a circuito chiuso per sorvegliare l’area. Dentro ci sono lavatoi per fare il bucato, due tende dedicate rispettivamente alla moschea e alla chiesa, una cucina da campo, che fornisce due pasti al giorno, al costo di un euro e mezzo l’uno. Il cibo, per l’appunto. Uno dei nodi del contendere, per i migranti di San Ferdinando. Alla fine, hanno ottenuto di potersi preparare i pasti anche da soli, in una tenda allestita allo scopo. La gestione della nuova tendopoli, costata circa 300’000 euro, venne assegnata alla protezione civile.

 

È corretto parlare di migranti?

“Continuiamo a chiamarli migranti, ma in realtà vivono qui da anni, sono braccianti, lavoratori salariati in alcuni casi con contratti lavoro, più spesso in nero, che non hanno una paga sufficiente per acquistare una casa. Lavorare in nero significa nel loro caso non consentire di ottenere il permesso di soggiorno e quindi restare in uno stato di sospensione/attesa indefinita. Quindi neppure quei casi che rientrerebbero nella normativa restrittiva della legge bossi-fini che riconosce il permesso solo a chi ha un lavoro riescono ad ottenerlo a causa della sopraffazione di aziende disoneste.

Sono braccianti agricoli sfruttati, solo che a differenza dei calabresi, non hanno una casa e sono costretti a vivere accampati, lavorando in nero.”

 

Perché, poco dopo questo sgombero, si forma nuovamente un insediamento abusivo che arriva a raccogliere 3000 persone?

“Perché non si sono trovate soluzioni abitative adeguate e quindi in assenza di risposta, il bisogno di questi lavoratori di vivere nelle vicinanze del luogo di lavoro genera nuove baraccopoli.”

Per farci un’idea del tentato sgombero del 2017 vediamo il video realizzato dai due giornalisti in quell’occasione. “Da tenda a tenda” 24/10/2017:

 

Cosa ha provocato la morte di Becky Moses?

Nel gennaio 2018 è divampato un altro incendio tra le baracche di San Ferdinando. A perdere la vita è stata una donna nigeriana di 27 anni e altre due donne sono rimaste ferite. La vittima si chiamava Becky Moses, ma nel campo tutti la conoscevano come Amina. Era in Italia da un paio di anni e viveva a Riace. La sua richiesta di protezione umanitaria internazionale era stata respinta, ma aveva una casa e si stava avviando al lavoro, nell’ambito di un Centro d’accoglienza straordinaria. Il 28 dicembre 2017, il Comune è stato costretto a chiudere il progetto, per il taglio dei finanziamenti da parte della Prefettura di Reggio Calabria. Così Amina ha dovuto abbandonare Riace e trasferirsi a San Ferdinando, che, nonostante lo sgombero dell’estate 2017, ha continuato a ospitare oltre 2 mila persone, fino all’arrivo delle ruspe pochi giorni fa.

Qui il video-doc di Gilberto Mastromatteo e Massimo Lauria “Chi ha ucciso Amina?” con intervista a Mimmo Lucano.

 

Nonostante tutto si continua a non offrire soluzioni abitative adeguate?

Come sostiene Silvio Messinetti sul Manifesto: “In tutti questi anni lo Stato non ha mai voluto smantellare questa vergogna. Ha preferito sbianchettare lo scempio, sostituendo le tende con i container ma senza offrire un tetto e una casa dignitosa ai lavoratori. Invece sono proprio il concentramento di povertà e la ghettizzazione a creare l’apartheid. L’unica soluzione, su cui da anni puntano attivisti, urbanisti, sindacalisti, sarebbe l’inserimento abitativo diffuso: case sfitte e beni confiscati per migranti e autoctoni, sono quasi 40 mila solo nella Piana.”

Più recentemente nell’estate 2018 si è tornati a parlare di sfruttamento e condizione del lavoro dei braccianti calabresi a causa della morte del sindacalista Soumaila Sacko.

Qui riportiamo lo sfogo di Aboubakar Soumakoro (sindacalista Usb) dopo l’uccisione del compagno  nel giugno 2018:

 

Quali sono quindi le cause profonde del sistema di sfruttamento agricolo?

Il lavoro in nero si inserisce in un sistema di caporalato diffuso che esiste in tutto il sud, ma anche al nord in alcuni territori (vedi la situazione nel cuneese). Di un giro di affari di miliardi di euro, una percentuale importante (oltre il 60%) della filiera agricola di cui una parte importante in nero.

Lavorano per 1€ a cassetta riuscendo a raccoglierne 20-25 al giorno. Cifre da fame.

E lo sfruttamento in una condizione di ricatto data dalla mancanza di permesso di soggiorno sfocia in una condizione di sostanziale schiavitù.

Alcuni hanno un permesso di lungo soggiorno, lavorano qui da tempo e spesso hanno un contratto.

Molti sono in attesa di un permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, che adesso è stato abolito dall’ultimo decreto Salvini. A causa di questa modifica non è possibile reinserirli in CAS o SPRAR perché formalmente non ne hanno più titolo e d’altra parte il governo non ha soldi per i rimpatri tanto sbandierati.

La condizione dei braccianti nelle piane di Gioia Tauro si inserisce in una condizione più generale di massiccio utilizzo di lavoro nero nelle campagne. Molti braccianti accettano il ricatto del caporale perché l’alternativa sarebbe morire di fame.

E d’altra parte è evidente che parlare di repressione non basta per risolvere i problemi.

Lo sfruttamento ha molti volti e non tutti sono illegali. Uno  di questi si chiama “asta al doppio ribasso”, col quale la grande distribuzione impone prezzi insostenibili per i produttori. Qui il legislatore forse può fare molto, intervenendo sulla regolamentazione di un meccanismo che strozza le aziende agricole. Dall’altra parte abbiamo una diffusa illegalità nei campi, con l’impiego di lavoratori senza contratto e in molti casi, come per i braccianti africani, ma non solo, condizioni di sfruttamento anche molto aggressivo.

Rompere questa catena non è semplice, ma se non si parte da una reale volontà politica capace di agire su più livelli, dalla repressione alla prevenzione dei fenomeni di sfruttamento nelle campagne, vedremo prosperare questa situazione ancora per molto tempo.

 

Per saperne di più vedi i dati dell’osservatorio agromafie con le statistiche che danno le dimensioni del fenomeno: https://www.osservatorioagromafie.it/