Il lavoro al tempo delle piattaforme

La traiettoria del capitalismo, delle sue crisi e dei suoi sviluppi, si intreccia inestricabilmente con quella del lavoro, della sua forma e delle sue lotte.

di Giulio De Petra – Centro per la Riforma dello Stato*

È la riorganizzazione continua del modo di produzione capitalista che determina la forma del lavoro, i modi e l’intensità dello sfruttamento, le caratteristiche della sua alienazione.

E, nello stesso tempo, sono i conflitti prodotti dall’organizzazione politica del lavoro a determinare i tempi e i modi dei passaggi della riorganizzazione del capitalismo.

Ed è un conflitto necessario, senza il quale il meccanismo di sviluppo del capitalismo rischia di avvitarsi su se stesso, di procedere per inerzia, proseguendo sulla propria traiettoria senza adeguata consapevolezza delle conseguenze sociali, economiche, ambientali che determina.

Questa reciproca implicazione di lavoro e capitalismo vede nell’utilizzo delle tecnologie storicamente disponibili la risorsa determinante, quella che consente determinate forme di produzione e quella che influenza l’organizzazione politica del lavoro.

La comprensione di come le tecnologie digitali, la forma attuale delle tecnologie di produzione e di organizzazione sociale, modificano e determinano la forma del lavoro è quindi centrale per comprendere la forma attuale del capitalismo.

Ma è centrale anche da un altro punto di vista, che è una delle motivazioni (la principale?) di queste due giornate di analisi e confronto.

Nella ricerca attuale di un perno intorno cui addensare la costruzione di una cultura e di un’organizzazione politica della sinistra si parla spesso della necessità di dare vita a un “partito del lavoro”.

Per evitare che questa sia una formula generica, e quindi inutile, è necessario però non riferirsi al lavoro come categoria generale, ma indagare e conoscere la forma attuale del lavoro, nella molteplice varietà in cui si mostra e si nasconde, spesso invisibile a chi non riesce a guardare cosa c’è dietro l’apparenza.

E considerare che, dato che la forma stessa dell’organizzazione politica dipende dalla forma del lavoro, anche ciò che intendiamo per “partito” dipende dalle caratteristiche di ciò che è il lavoro oggi.

 

Il lavoro nel capitalismo delle piattaforme

I dispositivi digitali che oggi rappresentano la tecnologia prevalente di produzione e organizzazione del lavoro sono le “piattaforme digitali”.

Senza affrontare la difficoltà di una loro definizione generale, è utile mettere in evidenza che esse poco hanno a che fare con il tema della automazione dei processi produttivi e della sostituzione del lavoro umano con le macchine, su cui finora tradizionalmente si è concentrata l’attenzione della sinistra, e che recentemente ha preso la forma dei miti connessi alle intelligenza artificiale.

Molto hanno invece a che fare invece con l’organizzazione, l’esecuzione, il disciplinamento e anche la creazione del lavoro così com’è oggi concretamente.

E per capire questo lavoro concretamente svolto, ci aiuta cogliere qualche significato del termine “piattaforma”. Che viene usata, ad esempio, per descrivere il “programma” di una organizzazione politica o di un suo candidato. E le piattaforme digitali oggi egemoni sono anche un “programma politico” in quanto incorporano esplicitamente il messaggio politico del liberismo, in cui chi lavora è un individuo, isolato nel suo rapporto con la piattaforma, e “libero di obbedire” alle prescrizioni implicite delle modalità operative che gli vengono consentite.

O, nel lessico informatico, il fatto che il termine “piattaforma digitale” abbia sostituito il termine “architettura digitale”. Il termine architettura presuppone un “architetto”, cioè qualcuno che progetta e determina le caratteristiche dell’architettura, mentre il termine “piattaforma” incorpora in sé una sorte di oggettività tecnica non discutibile e non negoziabile.

Un dispositivo cioè usa l’apparente oggettività tecnica per nascondere non solo le sue modalità di organizzazione del lavoro, ma il lavoro stesso.

Se volessimo indicare una tra le molte caratteristiche di quello che molti chiamano il “capitalismo delle piattaforme” questa è proprio rendere invisibile il lavoro.

E quindi il primo compito è rendere visibile ciò che non appare o che viene definito in altro modo, come attività volontaria, saltuaria, liberamente decisa, come partecipazione, come socialità, etc.

Antonio Casilli, nel suo Schiavi del Clic, un libro importante per capire cos’è il lavoro oggi, basato su indagini e inchieste sul campo, individua tre categorie che servono a descrivere questo lavoro che non si vuole riconoscere come tale.

La prima è quella del lavoro a domanda.

È quello più visibile. La consegna di beni per conto terzi (rider), l’ultimo miglio della logistica, che illustra la centralità dei lavori della logistica nel capitalismo attuale (come ricorda da tempo Sergio Bologna), non solo quella del movimento dei container a servizio della produzione globalizzata, ma anche il lavoro dei magazzinieri di Amazon.

Lavoro a domanda non sono soltanto i rider, ma anche la grande varietà delle attività di servizio camuffate come condivisione di risorse (Huber, Airbnb, etc.).

È importante mettere in evidenza che anche quando il lavoro a domanda riguarda un servizio, la produzione rilevante per la piattaforma intermediaria è la produzione di dati connessa al servizio.

La seconda è quella dei micro-lavori.

L’esempio più conosciuto è quello di Mechanical Turk di Amazon, dove si comprano e si vendono microtask di lavoro più o meno complessi. Da tradurre qualche riga, a trascrivere audio, a riordinare elenchi, a classificare immagini. Ogni task per qualche centesimo di dollaro.

Molte sono le piattaforme esistenti con milioni di utenti. Chi domanda è concentrato nei paesi ricchi del nord del mondo. Chi esegue nei paesi poveri del sud, in particolare India e sud est asiatico.

Interessante il fatto che questi micro lavori oggi addestrino proprio i sistemi presentati come intelligenze artificiali, che basano la loro apparenza di intelligenza sulle correlazioni statistiche di enormi quantità di dati.

Dati che devono però essere interpretati e classificati da enormi quantità di micro-lavoro umano. Un esempio molto diffuso è quello del “Recaptcha”, il meccanismo per cui per poter interagire con alcuni servizi digitali siamo chiamati a interpretare alcune immagini per dimostrare che non siamo degli algoritmi. L’interpretazione di quelle immagini (in quali compare una bicicletta? In quali compaiono strisce pedonali?) serve, ad esempio, ad addestrare i sistemi di guida delle auto a guida a autonoma.

La terza è quella del lavoro sociale.

Lavoro sterminato che viene estratto e incorporato nelle piattaforme. C’è sul lavoro gratuito e inconsapevole molta letteratura. Anche in questo caso l’apparenza del contributo è, ad esempio, il contenuto immesso nella piattaforma (l’immagine, il video etc.), mentre il valore significativo per la piattaforma è la creazione di dati relativi all’atto della sua immissione.

È interessante notare che il sistema di estrazione di valore dal lavoro sociale prevede sempre di più la presenza di lavoratori retribuiti in mansioni di controllo e verifica. È il caso ad esempio dei moderatori di discussioni, e, sempre più numerosi, dei verificatori di contenuti per eliminare contenuti ritenuti non ammissibili. Non solo su temi socialmente sensibili anche su temi politicamente scomodi.

 

Il lavoro da remoto

Anche rispetto al lavoro, così come in molti altri ambiti dell’organizzazione della società, i mesi della pandemia non hanno fatto altro che accelerare drasticamente fenomeni e tendenze già presenti.

Lo “switch off” digitale ha dato visibilità alla filiera della consegna di beni per conto terzi, agli operatori degli sterminati magazzini dell’e-commerce. Erano lavori quasi invisibili, ci si occupava di loro quasi solo per curiosità sociologica. Ora sono entrati a pieno titolo tra i lavori essenziali che hanno consentito di continuare a vivere durante i mesi dell’isolamento sociale.

Le prime lotte che li riguardano, dalla richiesta di contratto per i rider, alle condizioni di lavoro degli operatori della logistica, oggi fanno notizia.

Ma l’accelerazione non ha riguardato soltanto la galassia del lavoro precario che si presenta come lavoro apparentemente indipendente. Ha riguardato anche una grande parte del lavoro dipendente con l’esplosione quantitativa del “lavoro da remoto”.

Anche in questo caso si tratta di un cambiamento dei luoghi e tempi di lavoro che era già in atto. Il modello fondato su fabbriche e uffici era già in forte tensione tra la spinta centrifuga verso il lavoro individualizzato su domanda e quella centripeta che concentra innovazione e potenza di calcolo al centro dell’organizzazione di impresa.

Si tratta di una accelerazione di processi di esternalizzazione e di individualizzazione del lavoro già presenti e resi possibili da un diverso e più intenso utilizzo delle tecnologie digitali.

Elemento caratterizzante di questa riorganizzazione è che le tradizionali forme di controllo sul lavoro, dall’assegnazione dei compiti, alle modalità di esecuzione delle attività e al controllo delle prestazioni sono affidate a dispositivi digitali del tutto analoghi a quelli utilizzati dalle grandi piattaforme di intermediazione digitale dei “lavoretti”.

Anche l’organizzazione del lavoro cooperativo di tipo orizzontale viene incorporata nel dispositivo digitale che diventa l’intermediario non solo tra chi lavora e i sistemi aziendali di governo del lavoro, ma anche con gli altri lavoratori che con lui sono chiamati a cooperare.

Conoscere e analizzare le forme del lavoro digitale ha quindi una rilevanza politica che va molto al di là della rilevanza quantitativa (che pure è notevole) e della marginalità sociale dei “lavoretti”, ma consente di comprendere le tendenze dell’organizzazione del lavoro “in generale”.

 

Le nuove forme del conflitto

A questa forma del lavoro corrispondono prime esperienze di lotta e di organizzazione politica del lavoro.

Le prime riguardano l’estensione ai “lavoretti” di forme di tutela tradizionali del lavoro. SI tratta di conflitti molto duri in cui le piattaforme sono disposte a tutto per difendere il carattere apparentemente indipendente del lavoro da loro organizzato.

O la difesa, per il lavoro da remoto, delle forme del lavoro dipendente in presenza (che non è la simulazione da remoto del lavoro in presenza).

Un altro insieme di esperienze di contrasto è quello di richiamare motivazioni originarie del lavoro cooperativo, e immaginare piattaforme a servizio di queste forme di cooperazione sociale.

Per descriverle possiamo utilizzare lo slogan “un’altra piattaforma è possibile”. Il rischio è quello di progettare la coesistenza di piccole esperienza con l’egemonia delle grandi piattaforme. Con l’incorporazione tendenziale in queste di nuove forme di socialità.

Le più promettenti assumono come oggetto del conflitto la materia prima. Che sono i dati digitali, la loro proprietà, accessibilità, conoscibilità.

E qui vanno contrastate le rivendicazioni di proprietà individuale sui dati prodotti, basate su una cattiva interpretazione della legislazione sulla privacy, e valorizzate invece quelle che reclamano per i dati digitali prodotti (inclusi quelli generati dalla sterminata platea di sensori disseminati nelle nostre città e non solo) regimi di proprietà pubblica e/o comune.

Infine, rispetto all’estensione del lavoro da remoto individualizzato, contro questa “solitudine” del lavoro, serve la capacità di immaginare e organizzare nuovi spazi di lavoro che aiutino a unificare ciò che appare estremamente parcellizzato, ma che ha alla sua base una nuova e inedita uniformità nella forma e nelle condizioni del lavoro.

Occorre progettare e introdurre una terza possibilità tra lavoro in azienda e lavoro da casa. Non semplici spazi di coworking, come già esistono in molte città italiane, ma luoghi dove siano possibili processi di ricomposizione sociale.

L’obiettivo è quello di favorire una ricomposizione più ampia, che è quella tra lavoro dipendente e lavoro autonomo, qui accumunati da una stessa forma di prestazione lavorativa, capace di svelare sia la falsa autonomia del lavoro indipendente, sia la falsa sicurezza del lavoro dipendente.

È nel lavorare insieme che il lavoro ha costruito la coscienza della propria funzione sociale e politica. Oggi che al lavoro viene sottratto il luogo in cui riconoscersi reciprocamente, occorre intenzionalmente progettare e organizzare altrove questa possibilità.

 

* Intervento per la sessione “L’egemonia delle piattaforme” del convegno “Rileggere il Capitale”, organizzato da ARS e CRS.