Il mercato della cultura

Dopo la caduta del muro di Berlino, altri ne sono stati creati.

di Gerardo Ongaro

 

Quello tra gli Stati Uniti d’America ed il Messico (barriere nei due terzi dei più di 3000 chilometri di confine), al quale hanno contribuito anche i progressisti Clinton ed Obama, quello lo stesso Obama che deportò 2 milioni e 500 mila migranti, più di ogni altro presidente, ma si era però beccato il Premio Nobel.

Quelli spagnoli di Ceuta e Melilla, creati e mantenuti da governi di ogni colore politico. Barriere metalliche parallele sormontate da filo spinato, dotate di torrette e di tecnologie avanzate, con nel messo una strada per le pattuglie militari e di polizia.

Ma il muro più massiccio e pericoloso è stato quello ideologico.

Caduta l’ideologia socialista sotto i colpi della menzogna capitalista che la identificava con il regime totalitario sovietico, è rimasta la sacralità divina di quella liberista. Si tratta di un totalitarismo scaltro, mascherato con una falsa patina democratica. Con le sua mani invisibile, essa ha prodotto nel tempo più vittime di ogni catastrofe nella storia dell’umanità.

Le sua fauci hanno raggiunto ogni angolo della vita, e l’ha fatto con geniale astuzia, facendo credere che si trattasse di un evento naturale imponderabile, persino augurabile, al quale ci di deve adattare. I mercati chiamano, la “natura” risponde Presente!

Adesso il sistema sta ultimando l’opera, occupando i pochi tasselli che sono testardamente sfuggiti alle fauci della bestia liberista. Tra questi, forse il più pericoloso per il totalitarismo mercantile dominante: la cultura.

Nei due rami del parlamento italiano è stato presentato un disegno di legge che abolisce il canone RAI e al tempo stesso toglie il tetto alla pubblicità.

Non sorprende che questa iniziative provenga dal senatore Gianluigi Paragone, fautore di uno dei programmi peggiori della storia della televisione, La Gabbia. A voler essere maligni, potremmo sostenere che questa sua è una vendetta, una resa dei conti verso La7 che lo aveva cacciato. Lui stesso dice che la sua entrata in politica è stata una rivalsa contro certi ambienti di quell’emittente.

Il DDL prenderebbe due piccioni con una fava. Da un lato, l’abolizione del canone televisivo sarebbe una misura popolarissima; dall’altro, la rimozione del tetto della pubblicità della RAI procurerebbe un danno notevole alle emittenti private, compresa La7.

È grave che il punto di riferimento sia Mediaset invece che la BBC – se la RAI deve diventare come le emittenti private, tanto varrebbe privatizzarla. Si dovrebbe fare l’esatto opposto di ciò che si propone: si dovrebbe togliere la pubblicità, e non il canone.

La BBC si finanzia esclusivamente con il canone, i soldi pubblici e la vendita di produzioni di qualità. Niente pubblicità. La pubblicità fa scadere la qualità del servizio, perché dal volume dell’audience dipendono gli introiti. Per questo si producono programmi popolari ma di basso valore culturale.

Inoltre, la pubblicità causa conflitti d’interesse. Se un grande potere economico compra spazi pubblicitari significativi, sarà problematico per l’emittente svolgere il suo lavoro in maniera obiettiva. Sarà riluttante a produrre giornalismo d’inchiesta ed informare su questioni di interesse pubblico che potrebbero danneggiare il finanziatore privato dal quale dipende.

Forse il fattore più importante per una società democratica è l’esistenza di poli culturali e di informazione liberi da condizionamenti. L’emittente pubblica dovrebbe avere una funzione educativa, contribuendo a costruire una società
migliore. Come accade con la BBC, lo scopo della RAI non deve essere quello di fare concorrenza alle private tramite la conquista dell’audience, l’ossessione degli indici d’ascolto legati agli sponsor.

L’abolizione del canone RAI non sarebbe sbagliata, se fosse sostituita con l’incremento del finanziamento pubblico che renda indipendente la RAI. Ai finanziamenti pubblici potrebbero aggiungersi gli introiti da prodotti di qualità venduti a soggetti nazionali ed esteri, come ha fatto già ma in misura insufficiente, e come fa la BBC.

Finanziamenti pubblici significa che i contribuenti sono proprietari, e non, di fatto, le aziende private e la finanza con i loro spazi pubblicitari, che determinano l’esigenza di far audience in fretta e a tutti i costi.

Da tenere conto però che, se è soltanto la fiscalità generale a pagare, pagano tutti, anche chi la televisione decide di non possederla, mentre con il canone almeno in parte paga soltanto chi ne fa uso.

Un effetto collaterale della logica del mercato in RAI sono gli enormi salari a personaggi il cui merito è discutibile. Il sistema del profitto legato all’audience produce eroi mediatici inconsistenti ma redditizi, come accade con un prodotto
qualsiasi del quale si incrementano le vendite grazie alla costante visibilità.

Altrimenti non si spenderebbero somme enormi per pubblicità martellanti e per il confezionamento del prodotto. Il costo della pubblicità e dell’involucro costituisce percentuali altissime sui prezzi, talvolta attorno al 90%.

L’effetto celebrità televisiva segue lo stesso percorso psicologico di sfruttamento d’immagine. Nell’immaginario collettivo, la semplice ripetuta presenza sullo schermo produce l’effetto idolatria del personaggio, e questi produce audience.

La BBC è una passerella continua di personaggi che si trasferiscono alle emittenti private; queste pagano profumatamente la notorietà acquisita, che trasferiscono assieme agli ascolti, dai quali dipendono gli introiti pubblicitari.

Alla BBC arrivano poi sconosciuti che ben presto diventano a loro volta celebri, e il ciclo si ripete, a riprova dell’inconsistenza dell’unicità del personaggio. Il divo nostrano Fabio Fazio è un chiaro esempio di effimera fama che produce audience, per la quale rivendica un salario di valore intrinseco immeritato.

Non è che la BBC paghi poco le celebrità di turno – viene spesso criticata per questo. Ma li paga molto meno delle emittenti private, proprio perché non dipende dagli introiti legati agli indici d’ascolto.

La RAI ha inoltre sempre avuto una notevole carenza di indipendenza dalla politica. Anche in questo dovrebbe seguire l’esempio BBC, dove la par condicio non si applica soltanto a ridosso delle elezioni, è rigorosamente permanente.

La totale dipendenza economica dalla pubblicità, aggiunta a quella politica connivente con il potere, rappresenterebbe un cocktail gustosissimo per le forze dominanti, bramose di zittire voci culturalmente autonome dal pensiero unico liberista.