L’ultima crisi globale non ha cambiato il mondo. Ma questa potrebbe.

Il tracollo finanziario del 2008 non è riuscito a causare un cambiamento fondamentale del capitalismo. Questo momento sarà diverso?

di William Davies* – The Guardian

Il termine ‘crisi’ deriva dal greco ‘krisis’, che significa decisione o giudizio. Da ciò derivano termini quali critico (colui che giudica) e condizione critica (uno stato medico che potrebbe andare in entrambe le direzioni). Una crisi può concludersi bene o male, ma il punto è che il suo esito è fondamentalmente incerto. Affrontare una crisi significa vivere in un mondo che è temporaneamente aperto a scommesse.

La serietà della nostra crisi attuale è indicata dall’estrema incertezza rispetto a come e quando finirà. I modelli elaborati all’Imprial College – i cui calcoli hanno spostato in ritardo l’approccio relativamente rilassato al coronavirus del governo – suggeriscono che la nostra unica via d’uscita garantita dal distanziamento sociale imposto è un vaccino, il quale potrebbe non essere ampiamente disponibile fino all’estate dell’anno prossimo. È difficile immaginare un insieme di politiche in grado di navigare con successo un intervallo così lungo, e sarebbe ancora più difficile continuare a implementarle.

Una profonda recessione globale, un crollo del mercato del lavoro e l’evaporazione della spesa di consumo sono prospettive inevitabili. Fu il terrore che i contanti smettessero di uscire dai bancomat a meno che il sistema bancario non venisse supportato che ha guidato l’azione de governo nell’autunno del 2008. È venuto fuori che se le persone smettono di uscire dalle loro case, allora la circolazione di moneta diminuisce fino a fermarsi. Le piccole imprese stanno perdendo lavoratori a una velocità spaventosa, mentre Amazon ha messo un annuncio per 100,000 lavoratori aggiuntivi negli Stati Uniti.  (Una delle poche, e ben lontane dall’essere benvenute, continuità con il mondo che ci stiamo lasciando alle spalle è la crescita implacabile dei giganti delle piattaforme).

La decade che modella il nostro immaginario contemporaneo delle crisi è quella degli anni ’70, la quale esemplifica il modo in cui una rottura storica può indirizzare un’economia e una società su un nuovo cammino. Questo periodo segnò il collasso del sistema del dopoguerra di cambi fissi, controlli del capitale e politiche salariali, percepite come causa di inflazione incontrollabile. Ha anche creato le condizioni in cui la nuova destra di Margaret Thatcher e Ronald Reagan hanno potuto accorrere al salvataggio, offrendo una nuova medicina fatta di tagli alle tasse, aumenti dei tassi di interesse e attacchi al lavoro organizzato.

Gli anni ’70 hanno ispirato la visione della crisi come un cambiamento ideologico ad ampio raggio, che da allora ha mantenuto la presa su buona parte della sinistra. La crisi ha coinvolto una contraddizione che era ampiamente interna al modello keynesiano del capitalismo (i salari erano spinti in alto più velocemente della crescita produttiva, e distruggendo i profitti), e una ristrutturazione dello stile di business dominante: basta con la produzione pesante e rigida, sì a una produzione flessibile che potesse rispondere più agilmente ai gusti dei consumatori.

C’era anche una importante dimensione spaziale nella crisi degli anni ’70. Il capitale ha abbandonato le sue iconiche roccaforti industriali nell’Inghilterra del nord e nel Midwest americano, e (con l’aiuto dello stato) diretto verso i quartieri finanziari e degli affari di eleganti città globali come Londra e New York.

Per oltre 40 anni dopo la prima nomina della Thatcher, molte persone a sinistra hanno aspettato con impazienza un successore degli anni ’70, nella speranza che una simile transizione ideologica potesse accadere al contrario. Ma nonostante considerevoli disordini e dolore sociale, la crisi finanziaria globale del 2008 ha fallito nel provocare un fondamentale cambiamento nell’ortodossia politica. Infatti, dopo l’iniziale esplosione di spesa pubblica che ha salvato le banche, la visione thatcheriana mondiale del libero mercato è diventata ancora più dominante in Gran Bretagna e nell’Eurozona. I disordini politici del 2016 hanno preso di mira lo status quo, ma con scarso senso di un’alternativa coerente. Ma entrambe queste crisi ora sembrano meri precursori della grande crisi che è emersa a Whan alla fine dello scorso anno.

Possiamo già identificare alcuni modi per cui il 2020 e i suoi postumi saranno diversi dalla crisi degli anni ’70. Primo, mentre la sua trasmissione ha seguito la rotta stabilita dal capitalismo globale – viaggi di business, turismo, commercio – la sua causa ultima è esterna all’economia. Il grado di devastazione che diffonderà è dovuta alle caratteristiche di base del capitalismo globale che quasi nessun economista mette in discussione – alti livelli di connessione internazionale e la dipendenza della maggior parte delle persone dal mercato del lavoro. Queste non sono caratteristiche di un particolare paradigma di politica economica, nel senso che i tassi di cambio fissi e la contrattazione collettiva erano fondamentali per la teoria Keynesiana. Queste sono caratteristiche del capitalismo in quanto tale.

Secondo, l’aspetto geografico della crisi è diverso da una tipica crisi del capitalismo. Tralasciando qualsiasi bunker o isola in cui i super ricchi si stanno nascondendo, questa pandemia non discrimina sulla base dell’economia geografica. Potrebbe finire per far perdere valore ai centri urbani, poiché diventa chiaro quanto lavoro ‘basato sulle conoscenze’ può essere dopotutto fatto online. Ma, mentre il virus è arrivato in tempi diversi in luoghi diversi, una straordinaria caratteristica di queste ultime poche settimane è stata l’universalità dei comportamenti umani, delle preoccupazioni e delle paure.

Infatti, la diffusione degli smartphone e internet ha generato un nuovo pubblico globale del tipo che non abbiamo mai visto prima. Eventi come l’11 settembre ce ne avevano dato un assaggio, con i Nokia in giro per il mondo vibrando con istruzioni per andare immediatamente ad accendere la televisione. Ma il coronavirus non è uno spettacolo che sta accadendo altrove: è fuori dalla propria finestra, adesso, e in questo senso è perfettamente compatibile con l’età dell’ubiquità dei social media, dove ogni esperienza è catturata e condivisa.

L’intensità di questa esperienza comune è una tetra ragione per cui la crisi presente è percepita più come una guerra che una recessione. Alla fine, i decisori politici del governo saranno fondamentalmente giudicati nei termini quante migliaia di persone moriranno. Prima che quel computo sia fatto, ci saranno terrificanti sguardi al di sotto della superficie della moderna civiltà, mentre l’assistenza sanitaria viene sopraffatta e vite salvabili non vengono salvtae. L’immediatezza di questa minaccia viscerale e mortale fa sì che questo momento venga percepito meno come il 2008 o gli anni ’70, e più come altre crisi iconiche nel nostro immaginario collettivo – il 1945. Questioni di vita o morte rendono possibili più cambiamenti radicali nella politica di quanto possano mai fare indicatori economici, come dimostrato dal sorprendente annuncio di Rishi Sunak per cui il governo coprirebbe fino all’80% dei salari dei lavoratori se le aziende li mantengono nel loro libro paga. Tali misure impensabili sono improvvisamente possibili – questo senso di possibilità potrebbe non essere facilmente precluso di nuovo.

Piuttosto che vederla come una crisi del capitalismo, potrebbe essere meglio coglierla come uno di quei momenti di cambiamento mondiale che permettono nuovi inizi economici e intellettuali.

Nel 1755, la maggior parte di Lisbona fu distrutta da un terremoto e uno tsunami, uccidendo 75,000 persone. La sua economia fu devastata, ma fu ricostruita su linee diverse che nutrirono le sue stesse produzioni. Grazie alla ridotta dipendenza dalle esportazioni britanniche, l’economica di Lisbona fu infine rivitalizzata.

Ma il terremoto ebbe anche una profonda influenza filosofica, in particolare su Voltaire e Immanuel Kant. Quest’ultimo divorò informazioni sull’argomento che circolavano intorno ai nascenti mezzi di informazione internazionale, producendo prime teorie sismologiche su quanto era accaduto. Prefigurando la rivoluzione francese, fu percepito come un evento che ebbe conseguenze su tutta l’umanità; una distruzione su tale scala sconvolse le ipotesi teologiche, incrementando l’autorità del pensiero scientifico. Se Dio aveva un piano per la specie umana, concluse Kant nel suo ultimo lavoro, spettava a noi acquisire un’autonomia individuale e collettiva, attraverso una ‘società civica universale’ basata sull’esercizio del ragionamento secolare.

Ci vorranno anni o decenni per comprendere fino a fondo il significato del 2020. Ma possiamo essere sicuri che, in quanto autentica crisi globale, si tratta anche di un punto di svolta globale. Nell’immediato futuro ci sarà un gran dolore emozionale, fisico e finanziario. Ma una crisi di questa portata non sarà mai risolta finché molti dei fondamenti della nostra vita sociale ed economica non cambieranno.

 

*Traduzione in italiano a cura di Sinistra in Europa