Togliatti, il costituente. La centralità del lavoro e la questione proprietaria

La nostra sezione dedicata al centenario dalla fondazione del PCd’I, poi Partito Comunista Italiano, si arricchisce dell’estratto della relazione di Gianni Ferrara al Convegno su “Togliatti e la Costituzione” organizzato da Futura Umanità a Roma, Teatro de’ Servi, l’8 novembre 2013.

di Gianni Ferrara

La lettura degli interventi di Togliatti alla Costituente impone una constatazione iniziale che mi fa piacere riferire: Togliatti era un giurista. Come Marx e come Lenin . Ma dimostrò di esserlo nella concretezza della produzione delle norme, quelle dotate del valore supremo e della pretesa alla massima efficacia giuridica. Lo fu in ognuna delle tre sedi (Prima Sottocommissione, Commissione plenaria, Assemblea) ove si andava componendo il discorso normativo più alto della storia d’Italia, di quella giuridica, pur grandiosa e di quella politica, finalmente degna delle civiltà che si erano accumulate in Italia per secoli. Trent’anni di impegno totale nella lotta rivoluzionaria lo separavano dai quattro della sua brillantissima formazione, cadenzata dal massimo dei voti e le tante lodi in ciascuno degli esami ed in quello di laurea, nella Facoltà di giurisprudenza di Torino frequentata nel più fulgido dei suoi periodi. Vi insegnavano grandi maestri, Pacchioni di diritto romano, Chironi di diritto privato, Francesco Ruffini di diritto ecclesiastico, Patetta di storia del diritto italiano, Gaetano Mosca di diritto costituzionale, Einaudi di scienza delle finanze, e quel Gioele Solari di filosofia del diritto, chiamato con comprensibile enfasi “maestro dei maestri”. Ma questi trent’anni, se gli avevano negato alcune acquisizioni del costituzionalismo degli anni ’20, non avevano rimosso, offuscato, o mutilato la conoscenza delle categorie giuridiche e la loro dominanza sui rapporti umani.

 

Togliatti nella Prima sottocommissione. I rapporti economici.

Il contributo maggiore e anche più rilevante di Togliatti alla composizione del testo costituzionale fu quello volto a proseguire, dispiegare, sviluppare il significato ed il valore del costituzionalismo facendogli valicare la frontiera della separazione tra stato e società civile e, provando a farlo penetrare nella struttura stessa della società pervadendola. Lo strumento di quest’opera fu il ruolo che svolse di relatore sui “Principi dei rapporti economico-sociale”. Non nascose gli obiettivi che intendeva far raggiungere, non li mascherò, non li addomesticò. Nella relazione che predispose per la discussione anticipò che quel che proponeva mirava a riassumere lo spirito della Costituzione che si stava elaborando con “l’affermazione di nuovi diritti della persona umana il cui contenuto è in relazione diretta con l’organizzazione economica …” allo scopo di “operare nella società italiana, attraverso l’azione dello stato, profonde trasformazioni economiche e sociali allo scopo tanto di fare opera effettiva di redenzione del popolo quanto di colpire i gruppi privilegiati autori del fascismo …”. Al correlatore Lucifero, liberale, che propone il riconoscimento ad ogni cittadino del diritto alla vita con un minimo indispensabile di mezzi di sussistenza perché gli sia assicurata un’esistenza degna dell’uomo, ma afferma contemporaneamente che a questo fine ognuno è libero di svolgere un’attività economica di sua scelta, replica che “tutto questo suona irrisione”. Perché tale pura libertà economica produce “masse ingenti di donne e uomini privi di essenziali mezzi di sussistenza”, perché essa “è una delle condizioni perché l’intero sistema capitalistico possa funzionare ed è (pure) fattore di uno sviluppo che inesorabilmente tende, da un lato a concentrare le ricchezze nelle mani di gruppi ristretti di privilegiati, mentre, dall’altro lato, aumenta il numero dei diseredati. Anche se la massa dei diseredati in periodi di prosperità può tendere a diminuire, essa torna ad accrescersi in modo pauroso quando inesorabilmente sopravvengono periodi di crisi. Rileva poi che il regime in cui tutti sarebbero liberi di scegliere l’attività economica cui dedicarsi esiste solo nella concezione utopistica del dottrinarismo liberale. Fa constatare poi che la libera concorrenza genera il monopolio e la fine della libertà assieme alla concentrazione del potere in pochissime oligarchie. Attribuisce alla maturazione della coscienza di questa dinamica del capitalismo che induce le classi lavoratrici di tutti i Paesi a chiedere l’abbandono dell’utopismo del vecchio liberalismo e una conseguente radicale riforma della struttura economica della società.

Ricorda poi che è proprio dai fallimenti del capitalismo con le conseguenti reazioni totalitarie, che derivò la domanda di nuovi diritti da aggiungere a quelli che le Carte costituzionali del Settecento e della prima metà dell’Ottocento avevano riconosciuto ma che attengono ai soli rapporti tra cittadini e stato, domanda che il movimento socialista e altre correnti sociali come quella cattolica hanno avanzato per ottenere che ai diritti volti ad impedire “che i governi diventino arbitrio e tirannide vengano affiancati i nuovi diritti al lavoro, all’assicurazione sociale per tutti i cittadini, al riposo, ad una retribuzione corrispondenti alle necessità fondamentali dell’esistenza, a potersi costituire una famiglia e a poterla mantenere”. Rileva quindi la necessità di assicurare l’efficacia concreta delle enunciazioni che riconoscono i nuovi diritti. Da giurista quale è, fa osservare che si tratta di un problema del tutto nuovo che si pone nel campo delle garanzie giuridiche. Infatti, se per i diritti tradizionalmente riconosciuti dalle Carte costituzionali poteva e può essere sufficiente trovare la garanzia in una determinata struttura istituzionale ed in sedi giurisdizionali, per i nuovi diritti solo un determinato indirizzo di politica economica può provvedere ad assicurarli, e solo se ed in quanto “nella Costituzione venga indicato che la vita economica del Paese sarà regolata secondo principi nuovi …. E tutta l’attività economica del Paese venga guidata in modo che consenta la realizzazione di nuovi principi di giustizia sociale”.

A questo fine quindi propone un articolato diretto ai seguenti obiettivi da sancire in costituzione: a) necessità di un piano economico per il coordinamento e la direzione dell’attività produttiva dei singoli e di tutta la Nazione; b) il riconoscimento in Costituzione di appartenenze della proprietà di mezzi di produzioni diverse da quella privata, cioè cooperativa e statale; c) nazionalizzazione delle imprese che hanno carattere di servizio pubblico o monopolistico; d) istituzione di consigli di aziende per il controllo della produzione da parte di tutti i lavoratori; d) limite dell’interesse sociale da porre alla proprietà privata; e) riforma agraria per limitare la grande proprietà terriera e privilegiare quella piccola e quella media e particolarmente quella del coltivatore diretto.

È con questa Relazione che Togliatti delinea concretamente almeno due importantissime scelte di ordine teorico e programmatico, di rilevanza costituzionale e politica, di impegno del suo partito e dell’intero movimento operaio, con ancoraggio nazionale e proiezione europea. È quanto mai opportuno a questo punto soffermarsi sulle singole parti di questa Relazione per saggiarne la forza costruttiva della base teorica, politica e giuridica, su cui poggiare il sistema dei diritti sociali e con esso le condizioni e gli strumenti che ne possono garantire l’effettività.

La motivazione delle proposte che sta per enunciare in termini di articoli della Costituzione è quella della necessità di dare fondamento costituzionale alle riforme che “la maggioranza del popolo italiano desidera e reclama perché vede in esse un principio di rinnovamento di tutta la vita nazionale”. Riconosce ed evidenzia così un radicamento profondo da cui derivano quelle proposte e le carica di un compito alto ed arduo. Si trova però di fronte ad una questione che qualifica “di grande importanza” quella attinente al carattere, alla valenza, alla efficacia delle norme che propone, anche in relazione alla battaglia che ha condotto ed ha vinto per escludere dalla Carta enunciati ideologici, astratti, non traducibili in precetti giuridici. Questione di grande importanza perché “la Costituzione non dovrebbe contenere altro che la registrazione e sanzione in formule giuridiche, di portata generale, di trasformazioni già in atto, di conquiste già realizzate”. Tesi questa che aveva dalla sua parte l’autorità della dottrina classica del diritto pubblico, quella tedesca. Ma anche – e che a quel tempo contava certo più di qualsivoglia dottrina – la convinzione, manifestata all’VIII Congresso dei Soviet, nell’approvare la Costituzione sovietica del 1936, nientemeno che da Stalin, che fece propria la distinzione tra programma e Costituzione asserendo che “il programma riguarda il futuro, la Costituzione il presente” (Stalin, Questioni del Leninismo, Roma, 1945, vol. II, 247).

La questione si presentava allora in tutta la possibile complessità giuridica, teorica, politica. Ma fu geniale la soluzione che le diede Togliatti. Storicizzandola e attualizzandola. L’analisi della fase storica che attraversava l’Italia escludeva ogni dubbio. Era il momento, il tempo in cui si operava che obbligava a distaccarsi da “questa norma” – così definendola senza dire che fosse tale perché prescritta da una certa concezione dell’oggetto della norma giuridica o perché derivante da un’affermazione di Stalin. La congiuntura storica non era certo quella susseguente ad una rivoluzione ma solo ad una serie di eventi. Quelli che avevano sì determinato la riconquista delle libertà politiche e civili che vengono iscritte nella Carta costituzionale che così le registra e sanziona come conquiste già in atto. In atto, invece, per il tipo di trasformazioni sociali che si andavano realizzando, Togliatti riteneva che si potesse dire invece che fosse “in corso un processo rivoluzionario profondo che però per comune orientamento delle forze progressive si svolge senza che sia abbandonato il terreno della legalità democratica… accettando e rispettando il principio della maggioranza liberamente espressa”. Una “democrazia progressiva” quindi il cui valore “sta nel fatto che essa riconosce e afferma… \la\ tendenza a un profondo rivolgimento sociale attuato nella legalità”. É perciò che, stante il momento storico, stante la scelta della legalità democratica, diventava necessario che elementi programmatici, “non di previsione ma di guida |fossero| introdotti nella Carta costituzionale e questa venga ad assumere il valore non più di un patto tra popolo e sovrano per limitare il potere di questo … ma quasi di un patto concluso tra le diverse correnti politiche e diversi gruppi sociali”.

L’ultima notazione è rivelatrice: afferma che le sue proposte muovono “nella direzione generale di una trasformazione economica socialista”. Così Togliatti si dichiara “rivoluzionario costituente”.

Nell’illustrazione orale della sua Relazione aggiunse due considerazioni. Una diretta a rafforzare le ragioni dell’inclusione in Costituzione dei diritti sociali quand’anche non ancora realizzati, perché le obiezioni della teoria della Costituzione-bilancio erano già state superate a proposito dei diritti della persona, affermati in Costituzione anche se in gran parte non ancora godibili nella realtà sociale. L’altra considerazione mirò invece a precisare in tema di limiti e di obblighi da porre alla proprietà privata che le prescrizioni che ha proposto vanno riferite a quella dei mezzi di produzione e non a quella dei beni di consumo per i quali dovranno valere norme diverse.

Nel corso del dibattito sulle sue proposte adotta la linea della più rigida difesa dei contenuti degli articoli che aveva formulato e della massima apertura alle proposte di integrazione, arricchimento, puntualizzazione del testo. È così che viene approvata la formulazione della norma sulla remunerazione del lavoro che soddisfi le esigenze di un’esistenza libera e dignitosa del lavoratore e della sua famiglia che, con qualche lieve rifinitura leggiamo come articolo 36 della Costituzione. Difende tenacemente la dizione “stessi diritti” (dei lavoratori) e non “tutti i diritti”, come da emendamento, per assicurare il trattamento economico della donna lavoratrice. Ma a fronte delle difficoltà che incontra accetta la dizione “tutti… “ma ottiene che venga integrata con le parole “ed in particolare uguale retribuzione per uguale lavoro”. È sostanzialmente riproduttivo della formulazione che Togliatti aveva proposto il testo dell’articolo 38 della Costituzione sul diritto all’assistenza sociale e alle esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia e disoccupazione involontaria.

Intanto, indicativa dell’apertura di Togliatti ad esigenze, non definibili certo di classe, è poi la proposta di tutelare il risparmio non solo se derivante da lavoro ma in quella accezione più vasta che la metteva in connessione con la proprietà ed anche con la successione. Accetta la restrizione a quella derivante dal lavoro ma non la avrebbe voluta e teneva a sottolineare la sua opzione per una tutela di ogni tipo di risparmio.

Alla discussione su sindacato e diritto di sciopero la Sottocommissione giunge divisa. Togliatti, relatore, che era stato incaricato assieme all’altro relatore, Lucifero, e a Dossetti di concordare un testo condiviso, dichiara che c’è accordo soltanto sul primo dei commi dell’articolo che aveva formulato nell’allegato alla relazione, comma lievemente modificato, diretto a riconoscere a tutti i cittadini il diritto di associarsi per la difesa ed il miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita economica. C’era invece dissenso sulla sua proposta di garantire una difesa speciale del diritto di associazione sindacale. Quanto al diritto di sciopero c’era accordo solo nel riconoscerlo. Da parte sua infatti non c’era possibilità di accettare che si assicurasse il pari trattamento dello sciopero e della serrata e tanto meno che si ponessero dei limiti all’esercizio del diritto di sciopero. Motiva ampiamente le ragioni della sua opposizione. Sia all’ammettere la liceità della serrata, stante l’incontestabile differenza di posizione del possessore di mezzi di produzione e del salariato. Sia alla imposizione di limiti al diritto di sciopero perché porre questi limiti per motivi di ordine pubblico o di ordine economico sarebbe lo stesso che negare questo diritto per sottrazione del suo contenuto. Non riuscì ad ottenere che si escludessero limiti allo sciopero, ma che i limiti legislativamente prevedibili si potessero riferire solo alla procedura di proclamazione, all’esperimento preventivo di tentativi di conciliazione e al mantenimento dei servizi assolutamente essenziali alla vita collettiva. Ottenne infine che si riconoscesse sia il diritto non rinunciabile al riposo settimanale dei lavoratori sia quello di partecipazione alla gestione delle aziende ove prestano la loro opera.

Molto significativa è anche la successiva discussione sulla proprietà. C’è una prima imbarazzante questione che lo impegna. Si era già espresso in senso favorevole, riservandosi di proporne alcune modifiche, ad una formulazione dell’articolo sulla proprietà predisposta da Dossetti, allorché il collega (e compagno dell’allora PSIUP) Giovanni Lombardi presentò una proposta di articolo così formulata:“ È garantita la sola proprietà gestita da conduttori e lavoratori diretti o cooperative”. È l’occasione per Togliatti di chiarire quale tipo di Costituzione è quella che si sta scrivendo e ritiene che si debba scrivere. Non una costituzione socialista, ma la costituzione “corrispondente ad un periodo transitorio di lotta per un regime economico di coesistenza di differenti forze economiche che tendono a soverchiarsi le une con le altre”.

La lotta che riteneva che si dovesse condurre non era quindi quella “contro la libera iniziativa e la proprietà privata dei mezzi di produzione ma quella contro quelle particolari forme di proprietà privata che sopprimono l’iniziativa di vasti strati di produttori, … contro le forme di proprietà private monopolistiche ..”. Comprendeva che nella formula di Lombardi vi fosse “un lontano spirito socialista” per cui invitava “ i colleghi del suo partito a non votare contro” ma ad astenersi. La formula che aveva concordato era invece quella secondo cui i “beni economici di consumo e i mezzi di produzione possono essere in proprietà di privati, di cooperative, di istituzioni e dello stato”. Con l’aggiunta di un secondo comma col quale si stabiliva che “la proprietà privata, frutto del lavoro e del risparmio viene riconosciuta al fine di garantire la libertà e lo sviluppo della persona e della sua famiglia”, e che viene poi approvata dalla Sottocommissione. Formula che però – a parer mio – andrebbe letta nel senso che se non dovesse risultare come frutto del lavoro e del risparmio, ma del profitto e/o della rendita, la proprietà privata non sarebbe coperta dalla garanzia costituzionale riconosciuta a quella costituzionalmente indicata.

 

Togliatti, il Costituente. A mo’ di conclusione

Giunta a questo punto la ricostruzione dell’intera serie dei suoi contributi alla scrittura della nostra Carta costituzionale si perviene a riferire sui due discorsi, forse i più impegnativi, di Togliatti costituente. L’uno sui rapporti tra Stato e Chiesa Cattolica, problema secolare della Nazione mai definitivamente risolto, l’altro sul dover essere della Costituzione, cioè sul destino della democrazia in Italia.

Già quello concernente il voto del gruppo comunista sull’inserimento dei Patti Lateranensi in Costituzione si staglia per peculiarità dell’avvio, per chiarezza d’impostazione, per argomentazione serrata e per suggestione della scelta operata. Comincia col riferire sul significato del primo comma dell’articolo in discussione, fa notare che a proporlo, nella Prima Sottocommissione, fu lui stesso. E che nel formularlo si ispirò al pensiero di un illustre giurista liberale del quale aveva frequentato il corso di lezioni, studiato le dispense e col quale aveva sostenuto l’esame di diritto ecclesiastico nell’Università di Torino, Francesco Ruffini. Ricorda che alle lezioni di quel corso era presente un “grande scomparso” che definisce suo “amico e maestro”, Antonio Gramsci. Quel Gramsci che gli diceva che il giorno in cui dovesse formarsi un governo socialista, in cui fosse sorto un regime socialista, uno dei principali compiti di questo governo sarebbe stato quello di liquidare completamente la questione romana, garantendo piena libertà alla Chiesa cattolica. Cita poi la posizione assunta dal V Congresso del P. C. I. del 1946 di prestare la massima attenzione ad evitare conflitti con la Chiesa cattolica per non turbare la coscienza dei cittadini e per assicurare la pace religiosa in Italia. Impegno che implicava: a) che la Costituzione riconoscesse la libertà di coscienza, di fede e di culto, di propaganda e di organizzazione religiosa; b) che con i Patti Lateranensi si fosse definitivamente chiusa la “questione romana”; c) che il Concordato fosse riconosciuto come strumento bilaterale e che solo bilateralmente potesse essere rivisto.

Volle poi far notare che già nella Prima Sottocommissione e poi nella Commissione plenaria i comunisti avevano posto la questione degli articoli che, sia del Trattato sia del concordato, contraddicevano le norme che, insieme, le diverse parti politiche della Costituente avevano voluto introdurre nella Costituzione. A questa questione si aggiungeva quella della firma dei Patti lateranensi che il fascismo aveva propagandato come sua opera. Dalla rilevanza di tutte e due le questioni derivava la difficoltà di assumere i Patti lateranensi nel testo della Carta. Difficoltà che si era provato a superare con varie formule e strumenti di deliberazione parlamentare, le une e gli altri respinti. Respinti perché l’interlocuzione era falsata. Il dibattito non era con il gruppo democratico cristiano della Costituente ma tra“l’Assemblea costituente italiana e un’altra parte, l’altra parte contraente e firmataria dei Patti lateranensi”.

Togliatti vibra così un colpo duro, e meritato, alla Democrazia cristiana, ne rivela la subalternità al Vaticano. Ma un altro colpo lo indirizza a De Gasperi, dicendogli che era quella l’occasione perché il Governo assumesse il compito di legittimo rappresentante dell’opinione democratica e repubblicana che unanimemente si era espressa, ponendo il problema reale nei suoi termini veri. I termini veri che ricavò poi lui leggendo dall’Osservatore romano cinque articoli con l’affermazione che il diniego di includere i Patti lateranensi nella Costituzione sarebbe stato considerato (dall’altra parte contraente, la Santa Sede) “non una lacuna ma una minaccia, un pericolo. La minaccia alla pace religiosa, il pericolo di vederla turbata per la possibilità che lo sia”, come testualmente asserito dal quotidiano del Vaticano il13 marzo e ripetuto il 19, il 20, il 21 e il 22 dello stesso mese Togliatti dimostra così l’esistenza reale del pericolo di una guerra di religione e, contestualmente, da quale parte proviene questo pericolo, indica esattamente chi preannuncia tale guerra. L’operazione di Togliatti è politicamente abilissima. Rovescia radicalmente la propagandata ostilità dei comunisti alla religione, il pericolo per la fede cristiana e per ogni fede da parte dei cosiddetti “senzadio”. Assume quindi per il suo partito la difesa della pace religiosa come imperativo ineludibile dettato dalla “classe operaia che non vuole una scissione per motivi religiosi”. Sacrificherà le riserve già dichiarate e motivate a nome del partito che rappresenta i cui deputati voteranno a favore della costituzionalizzazione dei Patti Lateranensi per assicurare, nelle condizioni storiche date, la pace religiosa. Pace che, ciò non ostante, fu rotta poi due anni dopo dal papa Pacelli con vari anatemi e (Sant’Uffizio, 1 luglio 1949) con la scomunica dei marxisti, dei loro giornali, libri, dattiloscritti, manoscritti e quant’altro.

A completare la ricostruzione dell’opera di ideazione, elaborazione e definizione della Costituzione nelle tre sedi nelle quali fu prodotta, mediante una silloge di passi degli interventi, si riferiscono ora le parti più significative del discorso che Togliatti tenne nella discussione generale sul progetto di Costituzione elaborato dal Comitato di redazione della Commissione dei 75. Si era alle ultime battute della discussione generale del procedimento di formazione della Carta, era il pomeriggio dell’11 marzo del 1947, Togliatti parla tra l’intervento di La Pira e quello di Benedetto Croce. Inizia dando atto ai colleghi che lo hanno preceduto di essersi elevati ad un’altezza degna del tema in discussione e del compito che i costituenti si erano posto. Ma appena dopo aver espresso tale riconoscimento confessa di non riuscire “a sfuggire a un senso di perplessità” e si domanda, se non come singoli ma come Assemblea – la prima eletta su scala nazionale con quel potere e quella funzione – si sia riusciti realmente a porre nel necessario rilievo la prima e principale questione: quella di quale costituzione andava data all’Italia, di quale costituzione avesse bisogno l’Italia in quel determinato, concreto momento della sua storia. Approfondisce la questione domandandosi quali siano le ragioni di una costituzione nuova. Riconosce che sia vera, in parte, la tesi – la aveva sostenuta Francesco Saverio Nitti – che “i popoli vinti sono costretti quasi per una legge della storia a darsi Costituzioni nuove”. E vinto era, infatti, il popolo italiano. Aggiunge però che questo principio si è andato affermando insieme e in ragione di un altro principio, il principio democratico dal quale consegue direttamente il corollario “della responsabilità dei popoli per la loro storia e per il loro destino”.

Dalla responsabilità per il destino delle generazioni successive deduce la necessità di prendere coscienza delle cause della catastrofe dalla quale è emersa la necessità della Costituzione nuova. Cause da ascrivere tutte alla politica della classe dirigente prefascista, quella classe che fece prevalere sull’interesse generale i suoi interessi egoistici di conservazione di determinate strutture politiche, economiche, sociali, perdendo definitivamente il suo carattere nazionale. Pone quindi il problema della responsabilità che grava sulla classe politica prefascista di aver tollerato e forse anche consentito l’instaurazione del regime fascista. Perciò la necessità di una nuova Costituzione come base di un nuovo ordinamento complessivo per l’avvento di una nuova classe dirigente alla testa di tutta la vita nazionale. Non quindi una Costituzione a-fascista ma una Costituzione antifascista. Una nuova Costituzione che deve garantire per l’avvenire “per il suo contenuto generale e per le sue norme concrete …. che ciò che è accaduto una volta non possa più accadere, che gli ideali di libertà non possano più essere calpestati, che non possa più essere distrutto l’ordinamento giuridico e costituzionale democratico” di cui si stanno gettate le basi. Sapendo che la sola garanzia reale è che “alla testa dello stato avanzino e si affermino forze nuove che siano democratiche e rinnovatrici per la loro stessa natura” e una nuova classe dirigente, quella delle forze del lavoro.

È questa impostazione sola, concreta e possibile, che crede si debba dare alla costruzione della Costituzione. Una impostazione che lascia da parte le ideologie. Precisa infatti che l’ideologia non è dello stato, é dei singoli e dei partiti. Afferma così che non un’impostazione ideologica deve avere la Costituzione ma un’impostazione politica, concreta, derivante da una visione esatta della situazione in cui si trova oggi l’Italia. Perciò dichiara che i comunisti non rivendicano una costituzione socialista perché non è questo il compito che la storia pone alla Nazione italiana. Indica quindi quali crede che siano i beni sostanziali che la Costituzione deve assicurare agli italiani. Ne vede tre, la libertà ed il rispetto della sovranità popolare, l’unità politica e morale della Nazione, il progresso sociale, legato all’avvento di una nuova classe dirigente. Aggiunse che, assicurando questi tre beni alla Nazione, la Costituzione si sarebbe collocata “accanto all’arca del patto” e avrebbe illuminato e guidato il popolo italiano per un lungo periodo della sua storia.

Passa poi a rispondere alle critiche mosse al lavoro compiuto ed al tipo di costituzione che si sta delineando. Conferma che c’era stata “una confluenza di due grandi correnti: del solidarismo umano e sociale” da parte della sinistra e del solidarismo di altra origine (cristiano-sociale) che arrivava “nell’impostazione e soluzione concreta di diversi aspetti del problema costituzionale a risultati analoghi” a quelli della sua parte politica. Dall’affermazione dei diritti del lavoro e dei diritti sociali, alla “concezione del mondo economico, non individualistica né atomistica, ma fondata sul principio della solidarietà e del prevalere delle forze del lavoro, all’affermazione della dignità della persona umana come fondamento dei diritti dell’uomo e del cittadino, affermazione sulla quale soprattutto confluivano la corrente socialista e comunista e quella solidaristica cristiana. Definire col termine compromesso, questa confluenza, equivale a non comprendere che si sia trattato di qualcosa di molto più nobile ed elevato e cioè della ricerca di quella unità che è necessaria per poter fare la Costituzione non dell’una o dell’altra ideologia ma la Costituzione di tutti i lavoratori italiani e, quindi, di tutta la Nazione.

Non esclude certo che alcune formulazioni siano il risultato di un compromesso deteriore e ne cita alcune, lamenta poi che i giuristi non abbiano dato contributi considerevoli alla redazione del progetto e ne spiega la ragione. La attribuisce, correttamente, al loro distacco, durante i trenta-quarant’anni precedenti, dai principi della vecchia scuola costituzionale (ed è evidente il riferimento alla dottrina preorlandiana dei Compagnoni, Palma, Miceli, Brunialti, Arcoleo). Erano i principi del diritto romano, erano quelli delle Costituzioni borghesi elaborati dall’esperienza costituzionale dell’Ottocento. Principi rifiutati dalla dottrina della sovranità dello stato e dei diritti riflessi. Per la qualcosa i costituzionalisti a lui contemporanei, pur interpellati, non avevano dato risposte adeguate. Perché per darle “occorreva ch’essi cancellassero o dimenticassero qualcosa … che ritornassero a qualcosa che avessero dimenticato e non erano sempre in grado di farlo”. Attribuiva a questa carenza la debolezza e il carattere equivoco di molte formulazioni del progetto da esaminare.

Dichiara di non condividere la sostanza delle critiche di V. E. Orlando. Ne accetta alcune e gli assicura che se ne dovrà tener conto, correggendo le formulazioni, precisando i poteri dell’uno e dell’altro istituto, le funzioni dell’uno e dell’altro potere. Quanto però alla definizione del regime parlamentare da cui è partito Orlando, nota innanzitutto “che di definizioni del regime parlamentare se ne possono dare parecchie perché le caratteristiche del regime parlamentare possono essere variamente definite a seconda delle diverse dottrine e gli orientamenti diversi della teoria e della prassi”. Ma in riferimento alla frase “qui manca qualche cosa” che Orlando ha pronunziato, nell’esaminare gli articoli del progetto, Togliatti dice che non sa che cosa cercasse Orlando: “colui che mantiene l’equilibrio, colui che ha l’iniziativa, colui che sancisce” ma ha avuto “impressione che cercasse qualcosa” che non “si è voluto mettere nella Costituzione, cercasse il re”. Ribadisce che si è voluto affermare il principio della sovranità popolare in tutta la sua pienezza perché si manifesti in tutta la vita dello stato.

Ed è proprio per la proiezione di questo principio in tutta la vita dello Stato che è stato posto, insieme ai diritti, come il primo dei beni da assicurare dalla Costituzione alla Nazione, che esamina il progetto in discussione per la parte relativa all’ordinamento dello stato. E lo critica. Ad iniziare dal procedimento legislativo che giudica farraginoso stante il bicameralismo. In riferimento al quale ricorda l’ostilità di principio più volte espressa ma sulla quale non insiste e dichiara di accettare il bicameralismo a condizione però che le due camere siano entrambe espresse dal corpo elettorale e che non si limiti l’elettorato passivo per il Senato (come previsto nel progetto) disegnandolo in modo da restaurare il sistema censitario. Ritiene discutibilissimo il meccanismo attraverso cui si mira a risolvere “l’annosa questione della stabilità del governo” per cui, ad esempio, si pone un quorum per la validità della mozione di sfiducia. Attribuisce, come già rilevato da Nenni, alla volontà di bloccare una futura maggioranza delle classi lavoratrici che volesse innovare profondamente la struttura economica, sociale e politica del Paese l’insieme di misure, remore, limiti che trattengono l’espansione del potere parlamentare. E tra tali misure, remore e garanzie include la “bizzarria” della Corte costituzionale. Riteneva, infatti, che tutte “le trasformazioni sociali e tutte le questioni che saranno poste in relazioni a queste trasformazioni” potessero essere “dibattute e risolte nell’Assemblea e dall’Assemblea”, non altrove, non da altro potere.

Su questo punto l’impazienza del rivoluzionario faceva aggio sulla diffidenza del costituzionalista nei confronti di ogni potere e “l’ottimismo della volontà sul pessimismo della ragione”. Non faceva i conti sulla discontinuità del processo storico e sulla costante successione del proprio termidoro per ogni rivoluzione.

Proseguendo sul tema dell’ordinamento della Repubblica critica la mancanza di audacia in tema di Magistratura e degli organi di controllo. Quanto alla Magistratura, constatato che “a stento si è riuscito a far prevalere il ritorno alla giuria” riafferma il valore autenticamente democratico del diritto di essere giudicato dai propri pari nei processi che vertano su delitti politici o per reati che gli tolgano venti e più anni della loro esistenza. Ritiene però che andava affermata con maggiore energia “la tendenza alla elettività dei magistrati” e motiva questa convinzione con l’esigenza di “togliere il magistrato dalla situazione penosa in cui si trova di essere un sovrano senza corona e senza autorità” ritenendo che da tale situazione potesse uscirne se si stabilisse un “un contatto diretto tra il magistrato e il depositario della sovranità”.

Anche su questo tema è evidente l’eccesso di fiducia nelle dirette potenzialità della sovranità popolare non mediata dalla specificità dell’ermeneutica giuridica e neppure con la divisione in classi del titolare della sovranità e del potere del capitale di manipolazione delle coscienze popolari. Sulla questione dei controlli dissente dalla decisione di rinviare la materia alla legislazione ordinaria afferma anzi la necessità di attrarla nella Costituzione stante anche le gravissime carenze dimostrate dalla disciplina vigente sulla Corte dei conti, disciplina ispirata alla autoreferenzialità assoluta e che consente controlli inefficienti, ingiustificati nel riconoscere diritti dei cittadini, inidoneità complessiva a rispondere alle esigenze della democrazia moderna.

Passa poi a valutare il progetto dal punto di vista dell’unità politica e morale della Nazione, la seconda delle esigenze che ritiene come fondamentali per una Costituzione democratica e progressiva. Cita due questioni, quella dei rapporti tra Stato e Chiesa, e quella del federalismo. Sui Rapporti Stato e Chiesa anticipa quanto ad impostazione, argomentazione e valutazione la tesi che sosterrà nella seduta del 25 marzo successivo e su cui si è già riferito, salva, ovviamente, la diversità delle conclusioni.

Sul regionalismo, inizia col dire che il testo degli articoli, come risulta dal progetto, suscita nella sua parte politica molti dubbi e rende problematica la possibilità di votarlo integralmente. Non cambia la posizione assunta nella Commissione dei 75 in sede plenaria perché non è mutato granché il testo in esame. Aggiunge però ulteriori argomentazioni a motivo delle perplessità espresse in quella sede. Riconosce la necessità di prendere in seria considerazione le rivendicazioni dei due partiti regionalisti, quello repubblicano e quello democristiano. Ritiene che vada riconosciuto però che, con tutte i limiti e le malformazioni del centralismo che lo aveva caratterizzato, lo stato unitario aveva raggiunto e mantenuto l’obiettivo per il quale era stato costruito, quello, appunto, dell’unità nazionale. “Bene prezioso specie per un paese che la possiede da poco tempo”.

Insiste sul valore e l’interesse unitario della Nazione. Rivendica alla classe operaia lo spirito unitario ben maggiore di quello della borghesia. Ricorda che Bruno Buozzi, organizzatore dei metallurgici torinesi fu eletto deputato in una grande città meridionale. Cita “i metallurgici di Torino che davano la prova di camminare sul solco aperto dal Conte di Cavour facendo proprie e portando avanti quelle conquiste che non devono essere toccate, ma conservate e consolidate dalle nuove generazioni”. Concorda, certo, sulla concessione di larghe autonomie alla Sicilia, alla Sardegna e alle zone di lingue e nazionalità miste. Riconosce che nelle grandi isole italiane del Mediterraneo si sono creati “una situazione particolare economica e politica e un clima psicologico che impongono questa soluzione”. Ma “quando però si tratta di tutto il resto del territorio nazionale” invita a riflettere insieme. Nessun dubbio, anzi il massimo favore per il decentramento amministrativo e per l’istituzione di “enti regionali che permettano, perché in più stretto contatto col popolo, un più ampio sviluppo democratico e la formazione di nuovi dirigenti della Nazione su scala locale”.

Quel che invece combatte, oltre che una parte delle norme, quelle ad esempio sulla potestà legislativa delle regioni, è lo spirito del progetto. Insiste sul diseguale sviluppo del territorio nazionale, di cui una parte sarebbe già matura per “trasformazioni di tipo socialista, mentre l’altra no, l’altra non ha ancora compiuto la rivoluzione antifeudale”. Da qui la necessità di fare avanzare tutto il fronte insieme “per non correre il rischio di perdere un bene che è prezioso per tutti …. l’unità politica e morale della Nazione”. Denunzia poi la grave carenza di una disciplina della finanza regionale, disciplina che costituisce la base di organizzazione di ogni autonomia. Lamenta che si è discusso, invece, di mercati regionali, di sbocchi al mare, di hinterland, di porti regionali e si domanda se si vuol fare dell’Italia uno stato federale creando tanti piccioli staterelli che lotterebbero l’un l’altro per dividersi le scarse risorse del Paese.

Si è già riferito che, secondo Togliatti, il terzo dei beni da garantire alla Nazione era il progresso sociale e il rinnovamento delle classi dirigenti. La prima censura al progetto predisposto dal comitato dei 16, è che il tipo di compromesso raggiunto in quella sede sia stato anche del tipo deteriore, quando si è operato sostituendo una parola all’altra, attenuando questa o quella affermazione in modo da far sparire profili originali del testo predisposto dalla Prima Sottocommissione. C’è poi la denunzia della formazione di un fronte quasi generale contro l’inserimento in Costituzione dei diritti sociali, essendosi, tanti oratori, scoperti …. staliniani. Motiva quindi la volontà di riconoscere costituzionalmente tali diritti con l’esigenza di far in modo che la Costituzione possa corrispondere “alla situazione reale del Paese, situazione di transizione nella quale tali diritti” non si è “riusciti ancora a tradurre in atto”, ma forse lo si sarebbe potuto “se la situazione internazionale non fosse stata così grave e dolorosa”. Tiene poi a ribadire che “venga fatta una affermazione precisa circa il carattere della Repubblica. Riproporrà che la Repubblica venga denominata Repubblica italiana democratica di lavoratori. Per affermare, “senza escludere nessuno dall’esercizio dei diritti civili e politici, che la classe dirigente della Repubblica deve essere una nuova classe dirigente direttamente legata alle classi lavoratrici”. Alla richiesta che venga inserito “in modo preciso l’affermazione dei diritti sociali come elencati” aggiunge la necessità di dare una risposta chiara alla grave questione delle garanzie “per l’attuazione e la realizzazione di questi diritti”. A questo punto richiama la relazione che tenne nella Prima sottocommissione e che indicava gli strumenti necessari per garantire l’effettività del catalogo dei diritti sociali e le linee generali della riforma e dello sviluppo dell’economia italiana. E cioè: piano economico come base per l’intervento dello stato nella direzione del’attività produttiva della Nazione; riconoscimento costituzionale di forme di proprietà di mezzi di produzione diverse da quella privata; nazionalizzazione delle imprese con carattere di servizio pubblico o monopolistico; consigli di azienda; limiti al diritto alla proprietà privata a garanzia della funzione sociale del suo godimento; riforma del regime giuridico della proprietà terriera e tutela di quella piccola e media e, particolarmente, di quella direttamente coltivata. Si trattava, come concludendo ebbe a dire, “di gettare le fondamenta di un nuovo ordinamento sociale, di una società nazionale rinnovata, governata dal lavoro, secondo i propri interessi e secondo la propria profonda moralità, secondo quei principi di libertà, di uguaglianza, di giustizia sociale che sono l’essenza degli ideali delle classi lavoratrici in tutte le forme in cui può manifestarsi”.

Ho creduto che a riferire su Togliatti alla Costituente dovesse essere Togliatti stesso. È perciò che ho annodato uno ad uno i testi più significativi dei suoi interventi per dedurne il senso che ora appare evidente. Fu quello di imprimere nel tessuto normativo che si stava deliberando il disegno di una democrazia che superasse i limiti storici che ne comprimevano le potenzialità e progredisse nel realizzare i fini della Costituzione come condizione e in funzione della rivoluzione in Occidente.