Sostegno pubblico? Diamolo solo alle imprese che pagano le tasse in Italia

In questi mesi drammatici ci siamo trovati ad affrontare la pandemia di un virus aggressivo e finora sconosciuto. Il prezzo pagato è stato altissimo, in termini di vite umane, sofferenze fisiche e psicologiche, privazioni di ogni tipo, costi economici che mai avevamo dovuto affrontare dal dopoguerra a oggi per entità e tipologia, occupazione, tutela del lavoro e della libertà personale.

di Luciano Cerasa*

Le profonde carenze del nostro sistema sanitario, l’inefficienza e l’iniquità del nostro modello economico, la dissennata e ideologica gestione del bilancio pubblico hanno amplificato enormemente gli effetti del Coronavirus sulla popolazione, soprattutto nelle fasce più fragili: anziani e malati cronici, operatori sanitari, ma anche precari, disoccupati, poveri, lavoratori occupati nelle categorie più esposte e nelle produzioni che hanno continuato a operare anche dopo i divieti.

Eppure al momento di erogare sostegni alle categorie e agli operatori più colpiti, faticosamente contrattati con l’Unione europea per ottenere gli ingenti fondi necessari ad assicurarli totalmente in debito, si sono presentati a Palazzo Chigi con il cappello in mano anche grandi gruppi finanziari e multinazionali pronti ad approfittare dell’emergenza, come accaduto regolarmente passato.

Gli aiuti pubblici, finanziamenti erogati a fondo perduto, prestiti agevolati, sospensioni d’imposta e sconti fiscali, verranno erogati senza fare distinzione tra le società effettivamente insediate in Italia e che pagano regolarmente le tasse al dissestato erario italiano e quelle che riescono a esportare profitti miliardari realizzati nel nostro paese per metterli sotto l’ombrello delle aliquote “agevolate” dei paradisi dell’elusione fiscale. Molte di queste sponde complici, al contrario di quanto si crede comunemente, sono offerte da paesi dell’Unione europea. Spesso sono gli stessi, come Olanda e Lussemburgo, che si oppongono a misure di sostegno solidale con l’Italia in sede europea.

A causa del profit shifting, l’Italia perde ogni anno il 19% delle entrate tributarie dalle proprie imprese ovvero 7,5 miliardi di euro l’anno, di cui 6,5 all’interno dell’Unione Europea. Tax Justice Network di recente ha stimato che i soli Paesi Bassi l’anno scorso abbiano sottratto al nostro Paese 1,5 miliardi di imposte che sarebbero dovute essere versate in Italia. I profitti importati in questi paesi dalle multinazionali americane per sfuggire al fisco di tutti gli altri paesi dove li realizzano superano i 250 miliardi di dollari l’anno.

Le stime di Bruxelles indicano che le pianificazioni fiscali aggressive all’interno dell’Unione provocano una perdita annuale di gettito compresa tra i 50-70 miliardi (cifre riconducibili alla sola traslazione dei profitti, e che rappresentano il 17% delle entrate fiscali) e i 160-190 miliardi di euro se si comprendono anche gli accordi ad hoc delle maggiori multinazionali con gli Stati e le inefficienze nella raccolta del gettito. Poco meno di 50 miliardi sono invece elusi dalle persone fisiche che portano la propria ricchezza all’estero, mentre circa 65 miliardi di euro riguardano le frodi sull’iva transfrontaliera.

Per questo sono state avviate in questi giorni nel nostro paese una serie di iniziative, (compresa una petizione popolare http://chng.it/p8Pjmqbg) rivolte al governo Conte e al Parlamento perché siano escluse dalla concessioni di aiuti pubblici le società che non hanno sede legale e domiciliazione fiscale in Italia. Vi chiediamo di sostenerle attivamente.

 

 

*Luciano Cerasa è un giornalista, l’appello è stato pubblicato originariamente da www.rifondazione.it