1914: Capri Revolution – Le strade verso la libertà

Capri Revolution è un film di Mario Martone uscito nel 2018. La pellicola racconta la storia di Lucia, una pastorella analfabeta cresciuta a Capri agli inizi del Novecento, che gradualmente si emancipa dalla grettezza culturale della vita di paese, grazie all’influenza dei gruppi di avanguardia che in quegli anni avevano scelto l’isola come rifugio.

Intervista a Ero Giulodori a cura di Nicola Cucchi*

 

Cosa rappresenta “Capri Revolution”?

“Capri Revolution”, come gli altri due film di Martone che l’hanno preceduto – “Noi Credevamo” e “Il Giovane Favoloso” – ruota attorno alla urgenza di ricercare una relazione vitale autentica e lo fa attraverso gli occhi di una pastorella interpretata da una giovanissima quanto bravissima Marianna Fontana. Lucia infatti si trova a vivere agli inizi del Novecento in un’isola in cui la vita è ancora per molti versi distante dalle temperie dell’epoca. Tuttavia Capri nel 1914 non esprime soltanto secolari tradizioni legate alla società agricola locale. Nel contempo, infatti, questa ospita gruppi di rivoluzionari e sperimentatori sovversivi, che in quel pugno di dolomiti gettato nel mare cercano la tranquillità per poter continuare a lavorare, per innovare davvero il mondo. L’isola dunque diventa palcoscenico dell’esplosione di una tensione storica latente tra tradizione conservatrice incorporata dalla comunità locale e innovazione sovversiva, portatrice di cambiamenti epocali. Tutto lì, a Capri, un attimo prima che inizi la guerra che avrebbe stravolto gli equilibri del mondo e le vite di italiani e italiane.

 

Per comprendere meglio ciò che accade nel film è determinante avere alcuni elementi di contesto. In quale Europa ci troviamo?

Siamo nel 1914. L’anno fatale per la storia europea e mondiale. È l’anno in cui l’Europa piomba nella “grande ebetudine”, come ebbe a dire Mann. Un grandissimo storico francese, Fernand Braudel, scriverà:  “nel 1914 l’Europa era sull’orlo del Socialismo, ma anche della guerra. In pochi giorni precipitò nel baratro”.

Francia, Italia e soprattutto Germania avevano al proprio interno tensioni sociali che potevano trasformarsi in rotture rivoluzionarie. Nelle elezioni tedesche del 1912 i socialdemocratici tedeschi elessero più di cento deputati; nelle grandi città, come Berlino, erano maggioranza: solo una formula elettorale modellata sugli interessi dei conservatori impediva infatti che i voti si tramutassero in  seggi.

In Italia, dal Maggio del 1912, era stato quasi introdotto il suffragio universale maschile, e non a caso si era affermata un’alleanza elettorale – il Patto Gentiloni – per  mettere in sicurezza i tanti collegi elettorali che potevano essere conquistati dai socialisti o da altri sovversivi. Nonostante questo “cordone sanitario”, i socialisti, i radicali e i repubblicani, ottennero 170 deputati su 508 seggi; una minoranza certo, ma la maggioranza era divisa al proprio interno: i clericali e gli anticlericali erano infatti obbligati a stare insieme contro i sovversivi.

Qui, in Provincia d’Ancona, il 1914 fu l’anno della Settimana Rossa, un sussulto più insurrezionale che rivoluzionario, ma sintomatico della capacità di mobilitazione dei nostri sovversivi locali. E sempre in quest’anno, Mussolini fondò il Popolo d’Italia, dando inizio alla sua avventura interventista.

La Francia era l’unico importante paese repubblicano, in un continente di Re ed Imperatori, con una Costituzione, quella del 1875 della “Terza Repubblica”, baluardo ad ogni tentativo di ritorno alla monarchia. E con un movimento democratico forte, che non aveva dimenticato i 40 mila comunardi morti nel 1870.

Dal 1889 esisteva la Seconda Internazionale Socialista, che avrebbe dovuto dare slancio alla lotta delle masse popolari, superando le barriere statali. Al contrario, in agosto i socialisti d’Europa votarono, nei rispettivi paesi,  per entrare in guerra. Ognuno si schierò con il proprio governo borghese, ognuno pronto ad uccidere il proletario che stava dall’altra parte del fronte. Tale scelta fece deflagrare l’ideale internazionalista, dimostrando come la classe operaia europea fosse nazionalisticamente egoista. Una parte della socialdemocrazia tedesca ragionava cosi: “andiamo in guerra, vinciamo e il bottino renderà più ricco il nostro proletariato, quello tedesco.”

Solo i socialisti italiani furono neutralisti e purtroppo si trovarono isolati nel panorama socialista europeo. Il tracollo dell’internazionalismo socialista aprì la porta alla reazione e al nazionalismo, coagulati in Italia nel fronte interventista.

 

Quali sono i personaggi principali del film e quali valori interpretano?

Come detto, nella temperie culturale e politica prebellica, ancora prima che gli avvenimenti della guerra finiscano per scuotere la tranquilla bellezza dell’isola, Capri risulta un centro attrattivo per molte figure di rilievo. Vi trova rifugio Gorkji, tra il 1906 e il 1913, fatto che porterà Lenin a recarsi due volte nell’isola, nel 1908 e nel 1910, per incontrare lo scrittore. C’è il socialista russo Bogdanov, che fonda una scuola politica per esuli rivoluzionari russi. Nasce un  cenacolo con Edoardo Scarpetta, Sibilla Aleramo, Grazia Deledda, Arturo Labriola. E soprattutto, il pittore, animalista, pacifista, coreografo, regista e musicista Karl Diefenback (nel film Seybu) vi costruisce nel 1900 una comunità autogestita di artisti.

In questa sequenza di stralci del film, che proponiamo, possiamo apprezzare l’avvicinamento di Lucia alla comunità di artisti che viveva a Capri in quel periodo.

Il tutto ha inizio grazie alla grande curiosità della ragazza, affascinata dai comportamenti inusuali degli artisti.

Nel primo incontro con Seybu, Lucia esprime una forte diffidenza, interpretando il pensiero degli abitanti dell’isola, estremamente diffidenti verso le pratiche.

Gradualmente i due si avvicinano, fino a vivere momenti di grande affettività.

Infine in questa scena si rappresenta la rottura familiare che esplode in seguito al cambiamento di Lucia, trasformata dalla frequentazione della comunità di artisti.

Come contraltare a Seybu c’è il giovane medico, laico, positivista e socialista, che cerca di risolvere i problemi del paese appellandosi ai valori democratici e progressisti e ai dogmi della scienza positivista, più che all’intuito artistico. Il giovane, colto e coerente, crede fortemente nella legge quadro del 1907 che istituisce i medici condotti. Sostiene uno Stato che, per la prima volta in Italia, mette a disposizione il servizio dei medici e i farmaci per curare. Si scontra con gli estremisti, difende le sue posizioni ma con garbo, rispetto, attenzione. E poi andrà in guerra, da convinto interventista democratico.

Dunque la modernità, intesa come rottura dei legami tradizionali, assume a Capri una duplice forma: da un lato l’arrivo del progresso, l’elettricità, nuovi lavori, fino alla partecipazione alla guerra, il tutto impersonato dal medico condotto; dall’altro la fuga dalla società e il ritorno alla natura tramite la sperimentazione artistica, impersonata dalla guida spirituale Seybu. Queste due figure, in fondo, vanno oltre la storia che in cui sono inseriti, poiché in un certo senso mettono in scena la dialettica – che ha contrastato la sinistra per tutto il Novecento – tra massimalismo e riformismo, in questo caso tra spiritualismo palingenetico e materialismo riformatore.

Esemplificativo è questo confronto tra il medico condotto e la guida spirituale.

 

In questa dialettica, qual è il ruolo della protagonista Lucia?

Lucia, saprà portare a sintesi tutto ciò che i due uomini cercano di insegnargli;  sceglierà una propria autonoma strada, non avrà timore reverenziale nel mettere in evidenza le contraddizioni dei due,  e rinnovata, persino negli abiti, si riconcilierà con la madre, che rappresenta  una tradizione dinamica in grado di alimentare il rinnovamento. Nello specifico, il superamento della vita nella comunità di artisti non porta la ragazza ad avvicinarsi al polo opposto rappresentato dal medico, convinto che la sconfitta bellica degli imperi centrali sia necessaria per far progredire l’Europa. Viceversa, la pastorella – moderno Pastore Errante dell’Asia – ritiene la guerra una tragedia non solo per l’oggi ma anche per il domani; un cataclisma che distrugge la vita, unica reale possibilità  di riscatto. Il medico, al contrario, arriva a pensare che solo il sangue, la violenza e la morte, possano creare il nuovo. Sta forse qui la vera differenza di genere?

 

Dalla discussione sul film passiamo a descrivere brevemente il regista: chi è Mario Martone?

Martone è stato regista e organizzatore culturale importante, sin dai primi anni 80. Fondatore ed animatore di compagnie leggendarie per il teatro innovativo di quegli anni come “Falso Movimento”, “Teatri Uniti”, assieme a grandissimi attori ed attrici: Carlo Cecchi, Tony Servillo, Anna Bonaiuto, Licia Maglietta, una stagione che ricollocò Napoli nel posto che merita, ai vertici della vita artistica e culturale. E poi i primi film, “Morte di un matematico napoletano”, che nel 1992 vincerà a Venezia il premio della critica e lo struggente “Amore molesto” del 1995.

 

Qual è dal tuo punto di vista il messaggio/la lettura storica che Martrone propone tramite i suoi film?

Sia il teatro che il cinema ci danno la cifra dell’espressione artistica di Martone: ci sono gli avvenimenti storici, i tumulti della società che si riflettono nei singoli costringendoli a scelte radicali, che non sempre si ha la forza di compiere, e allora ci si perde. È utile ricordare quanto successe a Renato Caccioppoli, la cui storia viene raccontata nel film “Morte di un matematico napoletano”. L’insigne matematico è nipote di Bakunin, intellettuale di primo piano della città e del  PCI dell’epoca. Tutto sembrava dalla sua parte, eppure si trovò solo. I compagni sono ciechi, il Partito è cieco. Non trova quella relazione vitale che, secondo Pasolini, è l’unica situazione esistenziale in grado di salvarti. E nel maggio del ‘59 decide che non può andare avanti e si toglie la vita.

 

In generale, come riesce il regista a coniugare il registro estetico con le storie raccontate?

L’attività artistica di Martone, come detto, è da sempre alla ricerca della relazione vitale. Nel suo cinema non ci sono effetti speciali arditi e il montaggio è tradizionale, senza la ricerca di virtuosismi, in particolare con riferimento agli ultimi tre lavori – “Noi credevamo”, “Il Giovane Favoloso” e “Capri Revolution”. Un cinema italiano, europeo, per niente americano. Un cinema di immagini, di primi piani, di fotografia luminosa, viscontiana verrebbe da dire, che è quasi un compendio della pittura italiana, dal Rinascimento ai Macchiaioli, forse anche troppo calligrafica talvolta. Ed è un cinema di dialoghi, non sempre semplici da seguire, che sottendono una sceneggiatura ricercata, che attraverso la parola delinea le personalità prismatiche dei vari personaggi. Le origini teatrali del regista sono quindi ben presenti, come si può notare nel film in questione, nelle lunghe scene di danza, con la natura come quinta teatrale, che segnano visivamente i caratteri ed i mutamenti dei protagonisti con musiche che si sono meritate il David di Donatello.

 

*L’intervista nasce nell’ambito delle presentazioni curate dall’Istituto Gramsci Marche sotto la denominazione “Nuovo Cinema Gramscista” inserite nell’ambito della rassegna “Arena Cinema Lazzaretto” a cura dell’Arci Ancona.

Ero Giuliodori è insegnante di economia e diritto all’istituto Cuppari di Jesi, già assessore alla cultura di Jesi ecc.