La dichiarazione di voto con cui Rifondazione disse no alla guerra in Afghanistan

Era il 7 novembre 2001 quando le Camere approvarono il via libera all’intervento militare dell’Italia in Afghanistan.

Il testo, un “dispositivo comune” concordato tra la maggioranza (l’allora governo Berlusconi) e parte dell’opposizione di centro-sinistra, vide la sola opposizione di Comunisti Italiani, Verdi e ovviamente Rifondazione Comunista.

A vent’anni di distanza, e a pochi giorni dalla rovinosa fuga occidentale da Kabul e la riconquista del potere da parte dei talebani, ci sembra quanto mai utile riproporre quella che fu la dichiarazione di voto contrario pronunciata alla Camera dei Deputati dall’allora segretario di Rifondazione Fausto Bertinotti.

 

IL NO DI RIFONDAZIONE COMUNISTA ALLA GUERRA IN AFGHANISTAN.

Signor Presidente, signore deputate e signori deputati, oggi con questo voto della Camera l’Italia entra in guerra.
Ieri un’autorevole editorialista di uno dei più importanti giornali italiani ha scritto: «l’Italia è impegnata in una guerra senza quartiere quale non abbiamo più combattuto dopo il 1945». Penso che si fatichi persino ad accettare questo dato di novità, forse proprio perché è così inquietante.
Il terrorismo è morte, il terrorismo è un crimine contro l’umanità.
Questo terrorismo, che l’umanità dovrebbe fronteggiare efficacemente, è un disegno politico pericoloso, drammatico ed inquietante. Bisogna essere avversi a questo disegno politico non solo per i mezzi inumani che usa ma per i fini di società che persegue, che, qualora risultassero vincenti, darebbero luogo a forme di oppressione sconosciute. Ma la guerra è una risposta ingiusta ed inefficace, e se ingiusto può essere considerato il prevalere delle ragioni etico-morali sulla politica, a cui la politica potrebbe volersi ribellare in nome del realismo, inefficace è la categoria principale della politica.
Questa guerra è ingiusta ed inefficace. Ingiusta, come testimoniano i morti incolpevoli, le popolazioni afgane che fuggono la morte, i talebani, ed ora anche le bombe; come testimonia chi, di questa nostra società, tende a testimoniare la sua umanità in Afghanistan, come le donne e gli uomini di Emergency.
Questa guerra è ingiusta ma è inefficace: ormai è più di un mese e tutti gli obiettivi dichiarati sono stati falliti, falsificati, contraddetti; non un solo terrorista è stato preso; al contrario, il fondamentalismo e il fanatismo sono cresciuti in aree a rischio nel mondo.
Paesi il cui Governo è indispensabile nella lotta al terrorismo rischiano di essere pesantemente destabilizzati. Persino le parole giuste e buone rischiano di suonare ipocrite. E molti che, negli scorsi anni, non sapevano neppure trovare una parola di solidarietà con il popolo palestinese, hanno scoperto, dopo la guerra, le sue ragioni e ci hanno proposto una soluzione giusta: due popoli, due Stati. Sennonché, nessuno ferma la macchina da guerra di Israele e persino le proposte di un aiuto a quel popolo e a quei territori vengono smentiti da una spirale di guerra. Addirittura, prendono un suono sinistro le parole che vorrebbero, con gli interventi economici, costringere i palestinesi ad accettare ciò che hanno rifiutato, perché ieri, come domani, inaccettabile.

È cominciata la guerra: dopo mesi di fallimento è cominciato l’ingresso dell’Italia nella guerra, a segnare una escalation ed un protagonismo incomprensibili. È cominciata così la notte della nostra politica, la morte della politica ridotta alla sua protesi militare.
Si è detto che la guerra è cosa troppo seria perché la possano fare i generali; ora, la politica viene fatta dai generali. Tuttavia, questa scelta di guerra non è neppure una scelta innocente: dal momento che, con tutta evidenza, essa non riesce a combattere il terrorismo, per cui, naturalmente, non nego esserci una motivazione soggettiva in chi la promuove, vanno ricercate anche altrove le ragioni di questa guerra. E sono ragioni inquietanti. Esse riguardano la geopolitica, l’ordine mondiale. Risparmiateci davvero la vostra ipocrisia!
L’ONU è distrutta da quello che ha generato questa guerra. L’Europa è spiantata da questa guerra, ridotta ad una pallida comparsa. Persino la NATO, di cui certo non saremo noi a piangere la fine, è sostanzialmente cancellata, come qualsiasi forma di alleanza stabile, sostituita da un’alleanza a geometria variabile, decisa dal governo della globalizzazione e dal suo pivot.

Siamo ormai entrati nella seconda globalizzazione, quella che ha sostituito la presunzione della globalizzazione allo stato nascente con la globalizzazione dello stato di crisi, di cui il terrorismo e la guerra sono le manifestazioni più drammaticamente evidenti.
Siamo entrati in una condizione di instabilità assoluta e di incertezza, in cui questa seconda globalizzazione, che produce nuove ingiustizie ed incertezza, calamita un nuovo ordine delle grandi alleanze triangolari tra gli Stati Uniti d’America, la Russia e la Cina. Questo determina una gara per entrare in guerra, quasi a guadagnarsi uno status, per cui vorrei sottolineare il cinismo di questa gara: l’entrata in guerra, per paesi, nazioni e Stati, sembra essere l’acquisizione di uno status-symbol di potenza, la fissazione di una sorta di gerarchia mondiale, sotto la quale restano l’incertezza, la crisi, l’ingiustizia, che rappresentano il male principale del mondo.
E così la guerra lavora anche rispetto alla crisi economica, che si era manifestata prima della guerra e che è stata accentuata dalla guerra: 450 mila licenziati negli Stati Uniti d’America nel mese di ottobre. Di questo non si parla, come non si parla del diffondersi della crisi, mentre gli stessi Stati Uniti d’America cambiano le loro forme di governo dell’economia – con i sussidi, con un nuovo intervento pubblico, alla faccia delle politiche neoliberiste – e dovunque si cercano delle risposte che, però, non si trovano. Non è alle porte il New Deal del post-Pearl Harbour; è alle porte una richiesta di union sacrée, dentro alla quale, anche nei paesi europei e nordamericani, vengono calpestate le istanze di giustizia sociale e, in particolare, di quelle del mondo del lavoro.
E la politica tace sul rapporto tra petrolio e sviluppo, tace per pudore o per ipocrisia. Il 65-70 per cento delle risorse petrolifere del mondo stanno tra il Kazakistan e il Mar rosso. Bin Laden, con il suo partito del terrore, punta a diventare il signore di questa rendita petrolifera. Ma quanto conta questa risorsa nella guerra e nella scelta di guerra? Qui c’è il silenzio della politica, qui c’è la parola alla guerra che, anche per questa ragione, non è in grado di dire quando e dove finirà, e c’è il rischio, signore e signori, che si vada verso un conflitto di civiltà.

Non ho alcuna avversione per le manifestazioni, anzi. E neanche giudico le manifestazioni per chi le convoca. Partecipo o mi oppongo a seconda della loro natura e della loro piattaforma. La manifestazione indetta in Italia, a favore degli Stati Uniti d’America, riecheggia il «con me o contro di me», e questo allude – che lo si voglia o no – ad una gerarchia delle civiltà: se ce ne è una che viene per prima, ce ne è un’altra che viene per ultima, e questo è inaccettabile. È inaccettabile mettere una cultura sopra le altre; siamo americani come siamo arabi, siamo europei come mediterranei, siamo bianchi come siamo neri, siamo portatori di ogni diversità. Senza questa accettazione, la guerra rischia di diventare infinita. Perciò, manifestiamo per la pace, per fermare la guerra.

Vorrei dire, concludendo, che io sento come «notte della politica» la grande alleanza, che si determinerà con il voto sul dispositivo di ingresso dell’Italia nella guerra, tra il Governo di centrodestra e la sua maggioranza, da un lato, e la parte prevalente del centrosinistra, dall’altro. Lo sento come la notte della politica, perché penso che la politica sia grandi scelte: pace contro guerra, un modello di sviluppo rispetto ad un altro. Per questo possiede una forza così grande il popolo di Seattle, che parla di un altro mondo possibile. Quando le grandi differenze si occultano, non c’è l’unione del popolo e della patria, c’è l’esclusione dalla politica di tanta parte del popolo, di questo popolo italiano, che ha una vocazione di pace, che, oggi, questo voto tradisce. Per questo noi ci opponiamo.
E per questo vorremmo dire, senza polemiche interne, che si capisce per quali ragioni da questo voto esca così unito e forte il centrodestra, che ha nel suo DNA anche la guerra (Commenti di deputati del gruppo di Alleanza nazionale), mentre invece il centrosinistra esce diviso e lacerato, perché è esposto alla crisi. La guerra ha sempre diviso la sinistra, e la sinistra è ricominciata dall’opposizione alla guerra (Applausi dei deputati dei gruppi di Rifondazione comunista e Misto-Verdi-l’Ulivo).