La vera storia dei tre supereroi di Chernobyl

Andata in onda in prima visione italiana su Sky nel giugno del 2019, la mini-serie “Chernobyl” prodotta dalla Hbo, in queste settimane è riproposta da La7. La mini-serie televisiva, realizzato sotto un punto di vista tecnico e artistico a livelli molto alti, ha suscitato tuttavia molte polemiche, specialmente in Russia, per la non accurata ricostruzione storica dei fatti.

Dipingere le migliaia di eroi, ingegneri, pompieri, tecnici e soldati che sono andati coscientemente a morire per salvare la vita di un milione (almeno) di europei come una combriccola di sprovveduti, pavidi e incoscienti, può effettivamente generare polemiche.

A tal proposito vi proponiamo un estratto di un ottimo approfondimento in lingua spagnola, tradotto in italiano dalla redazione di Resistenze.

 

I tre supereroi di Chernobyl

E’ una delle vicende più note del nostro tempo: il 26 aprile 1986, il reattore n.4 della centrale nucleare di Chernobyl esplode nel corso di una prova di sicurezza mal eseguita, prodotto di una serie di operazioni insensate e di più di duecento violazioni del Regolamento di Sicurezza Nucleare dell’Unione Sovietica. (…)

Su Chernobyl sono state raccontate molte menzogne. E le hanno raccontate tutti; le autorità sovietiche dell’epoca, l’industria nucleare occidentale, oltre a tutti i propagandisti di qualunque tendenza politica. Una è particolarmente fastidiosa, quella che definisce la gente che si occupò del problema (quasi mezzo milione di persone) una banda di poveri ignoranti portati lì senza sapere cosa si trovavano davanti. Questa è la versione più odiosa, perché disprezza il loro eroismo, e poi è falsa. Una massa di ignoranti non serve a nulla in un incidente tecnologico tanto complesso. Le squadre di tecnici erano formate soprattutto da vigili del fuoco, militari dell’esercito e dell’aviazione addestrati alla guerra nucleare, ingegneri minerari, geologi e minatori specialisti di uranio, tutti esperti nella sua manipolazione.

Certo che conoscevano il pericolo del reattore che si trovavano di fronte, e chi intervenne lo fece con enorme valore e responsabilità. Centinaia, migliaia di essi, in modo eroico fino al sacrificio. I vigili del fuoco che turnavano – fra vomito diarrea causate dalle radiazioni – che salivano sul tetto di Chernobyl, dove vi erano più di 40.000 roentgen/ora, per spegnere gli incendi (la radiazione normale è di circa 20 microroentgen/ora). I piloti che portavano gli elicotteri proprio sopra il reattore aperto per farvi cadere pacchi di sabbia e argilla mista a piombo e boro. I tecnici e i soldati che correvano nelle gallerie devastate gridandosi le letture dei contatori Geiger e dei cronometri per sfondare pareti, ricollegare tubazioni in turni di quaranta o sessanta secondi vicino alla sala delle turbine (20.000 roentgen/ora). I minatori e gli ingegneri che lavoravano nei tunnel sotterranei immersi in quell’acqua azzurro brillante per piazzare le tubazioni che permettessero di far scendere la temperatura al nucleo fuso e radiante a pochi metri di distanza. Le migliaia di lavoratori e architetti che lavoravano nei tunnel sotterranei per costruire il sarcofago tutt’intorno ripulendo le macerie furiosamente radioattive ed evacuavano la popolazione.

Tranne i soldati, tenuti alla disciplina militare, a nessuno era proibito di scappare da lì. Ma non lo fece quasi nessuno. Anzi: molti vennero come volontari da tutta l’URSS, specialmente molti studenti delle università di fisica e ingegneria nucleare. Questi furono gli uomini e non poche donne che alcuni credono o vogliono credere fossero una massa ignorante e patetica. Sono loro che hanno spento il reattore. Li chiamavano, e si chiamano fra loro, i bio-robot [foto], che continuavano lavorare quando cedeva l’acciaio e le macchine si rompevano. Non lo fecero per denaro, né per la fama; ne ebbero ben poca. Lo fecero per responsabilità, per umanità e perché qualcuno doveva fare quel maledetto lavoro. Oggi voglio parlare di tre di loro, che fecero qualcosa in più dove l’eroismo era una cosa normale. Perciò ho voluto chiamarli “i tre supereroi di Chernobyl”.

 

Il mostro nell’acqua azzurro brillante

(…) La stessa logica erronea dei responsabili dell’impianto che provocò l’incidente, fece credere che era scoppiato l’impianto di raffreddamento, non il reattore; e questo fu quello che dissero al personale e ai loro superiori.(…) Per questo, in un primo momento, si buttarono sul reattore milioni di litri d’acqua e nitrogeno liquido per mantenere il reattore freddo, che credevano integro e nascosto dalle fiamme dal fumo nero. Ciò peggiorò le conseguenze perché l’acqua toccando il nucleo fuso a più di 2.000 °C si vaporizzava all’istante e saliva verso la stratosfera sotto forma di nubi di vapore che il vento trasportava ovunque.

In ogni modo si dovevano spegnere gli incendi. Quando il fuoco fu spento la contaminazione non era solo nell’aria, c’era pure una massa d’acqua accumulata nelle piscine di sicurezza sotto il reattore. (…) Dopo l’esplosione, queste piscine inferiori erano piene d’acqua uscita dal circuito primario e di quella usata dai pompieri per spegnere l’incendio. Al di sopra c’era il reattore aperto, in lenta fusione, sotto forma di lava di corio a 1.660 ºC. Da un momento all’altro potevano cominciare a cadere grandi pezzi di questa lava provocando esplosioni di vapore e proiettando nell’atmosfera centinaia di tonnellate di corio. Moltiplicando la contaminazione già provocata dall’incidente e colpendo tutta l’Europa. Inoltre, la miscela di corio e acqua radioattiva si sarebbe infiltrata nel sottosuolo contaminando le falde acquifere con gravi conseguenze per la vicina città di Kiev, in una sorta di sindrome cinese. Si decise allora di svuotare le piscine in modo controllato (…) L’unica maniera di farlo era aprendo le valvole manualmente. Ma le valvole erano sott’acqua, nella piscina, vicino il fondo pieno di macerie altamente radioattive che la facevano brillare di color azzurro. Proprio sotto il reattore che si fondeva emettendo un sinistro bagliore rosso giallastro.

Siccome le macchine non potevano farlo, era un lavoro per i bio-robot. Qualcuno doveva camminare fino al reattore scoppiato e ardente lungo un grigio terreno pieno di detriti dove la radioattività era così intensa da far sentire un sapore metallico in bocca, confusione in testa e pizzicorio sulla pelle, mentre le mani si abbronzavano in pochi secondi. Poi doveva immergersi nell’acqua oleosa e di azzurro brillante, col mostro radioattivo sulla testa per aprire le valvole a mano: un’operazione difficile e pericolosa in circostanze normali.

 

Era un viaggio di sola andata

Sembra che la decisione su chi dovesse andare fu presa in modo semplice, con quella vecchia frase che lungo la storia dell’umanità è sempre bastata agli eroi: “Vado io!”.

I primi due a offrirsi volontari furono Alexei Ananenko e Valeriy Bezpalov. Alexei Ananenko era un importante tecnologo dell’industria nucleare sovietica, che aveva partecipato alla costruzione della centrale di Chernobyl: cooperò al disegno delle saracinesche e sapeva dov’erano piazzate esattamente le valvole. Sposato, aveva un figlio. Valeriy Bezpalov, uno degli ingegneri che lavoravano nella centrale con un posto di responsabilità, era pure lui sposato, con una bambina e due bambini piccoli. Entrambi erano ingegneri nucleari. Sapevano benissimo che stavano per camminare incontro alla morte. Mentre indossavano le tute, notarono che avrebbero avuto bisogno di un aiutante per sostenere la lampada subacquea sul bordo della piscina mentre loro avrebbero lavorato immersi. Un giovane operaio della centrale di nome Boris Baranov allora si alzò e disse: “Verrò io con voi”. (…)

Sotto gli occhi umidi di chi era rimasto indietro, i tre compagni percorsero i 1.200 metri fino al livello -0,5, chiacchierando normalmente fra loro dicono. (…)

Sotto quel cielo grigio e i resti fumiganti di un reattore nucleare, gli eroi Alexei Ananenko e Valeriy Bezpalov s’immersero nella piscina del livello -0,5 con una tale radioattività che si poteva sentire, mentre il compagno Boris Baranov gli piazzava la lampada subacquea, che dopo poco si ruppe. Dall’esterno non li vide più nessuno. Ma le saracinesche si aprirono e un milione di metri cubi di acqua radioattiva fluiva verso l’invaso sicuro preparato appositamente. Erano riusciti. Qualcuno mormorò che gli eroi Ananenko, Bezpalov e Baranov avevano salvato l’Europa. E’ difficile stabilire fino a che punto avesse avuto ragione.

Ci sono versioni contraddittorie su quanto è accaduto. La più tradizionale racconta che non sono mai più tornati e sono sepolti lì. La più probabile assicura che sono riusciti a uscire dalla piscina e a celebrare la loro vittoria ridendo e abbracciandosi ai piedi del mostro, sul bordo della piscina, e che riuscirono pure a tornare indietro per morire poco dopo per sindrome radioattiva negli ospedali di Kiev e Mosca. Un’altra, che mi sembra impossibile, dice che Ananenko e Bezpalov sono morti ma che il giovane Baranov è sopravvissuto e viveva o vive ancora lì.

Monumento agli eroi di Chernobyl

Questa è la storia di Alexei Ananenko, Valeriy Bezpalov e Boris Baranov, i tre supereroi di Chernobyl, di cui si dice che salvarono l’Europa o la vita di almeno un milione di persone nei dintorni in quel freddo giorno di aprile. Andarono a morire coscientemente, deliberatamente, per responsabilità e umanità e senso dell’onore, perché gli altri potessero vivere.

Quando qualcuno pensa che il nostro genere umano non può salvarsi, può ricordarsi di uomini come questi e di altre centinaia, migliaia sullo stile di quelli che furono lì. Di loro non ci sono foto, e nemmeno hanno prodotto film a Hollywood, perfino i loro nomi sono difficili da trovare. Ma oggi, 24 anni dopo, io brindo alla loro memoria e li ringrazio. Per andare avanti.

 

Fonte in lingua originale: http://lapizarradeyuri.blogspot.com/2010/04/los-tres-superheroes-de-chernobyl.html