Nicoletta Soave Liberati, ovvero, umanità nella tragedia

Sembra che nell’essere umano esista un costante bisogno, innato, di miti ai quali far riferimento. Essi rappresentano la speranza. L’inconscio ci suggerisce: “…se loro, appartenenti alla nostra specie, lo hanno fatto, significa che è possibile…” Oggi, se gli eroi positivi, concreti, non esistono, si inventano, non se ne può fare a meno. Nascono allora celebrità istantanee, eroi fabbricati dal nulla, falsi miti sui quali piovono premi a iosa, talvolta Nobel per la Pace.

di Gerardo Ongaro

Vi sono invece eroi sconosciuti che la storia dimentica facilmente. Di questi eroi senza medaglia, si scrive di sfuggita nella letteratura narrativa e saggistica. Questo accade anche per la Resistenza, narrata soprattutto da pochi protagonisti colti che l’hanno vissuta, i soli in grado di scriverne. La prospettiva di quel periodo storico, dunque, si impoverisce, per l’assenza della versione di una maggioranza di protagonisti silenziosi.

Ne “I Piccoli Maestri”, riferendosi ai poveri contadini che collaboravano con i partigiani e compartivano i loro miseri pasti, Luigi Meneghello scrive “…pareva che al confronto noi fossimo dei ragazzini viziati che si mettevano nei guai, e poi andavamo a farci assistere da loro, e loro ci assistevano”.

Nicoletta Soave Liberati appartiene a quella schiera di protagonisti dimenticati. Eppure, la sua storia si intreccia e tocca con mano i nomi noti delle grandi opere letterarie, come quelle di Beppe Fenoglio, in quel delle Langhe piemontesi. Lei è tra le ragazze della piazza di Santo Stefano Belbo, così vividamente descritta ne “Il Partigiano Johnny”, allegramente affollata dagli azzurri badogliani e dai rossi garibaldini; Nicoletta è tra le partigiane che rischiano la vita percorrendo il panorama della Resistenza delle Langhe, descritto nello stesso libro, per trasportare armi, viveri, consegnare messaggi, per mantenere i collegamenti tra le formazioni garibaldine del comandante Rocca e i badogliani del comandante Nord (Piero Balbo, Poli).

Come gran parte della gente che partecipò alla Resistenza, parla poco di sé. Quando lo fa, spesso si ritrae con genuina modestia. Crede veramente che il suo contributo sia stato poca cosa, che fece soltanto ciò che andava fatto, semplicemente perché era giusto. L’hanno infine convinta a scrivere un libro, in collaborazione con Antonella Saracco, “I Ragazzi del Falchetto”, editore Araba Fenice. Tuttavia, tenendo fede alla sua innata umiltà, dedica gran parte dell’opera agli altri. Così infatti inizia il suo racconto: “La mia partecipazione alla Resistenza è stata una piccolissima cosa, sono passata come un moscerino intorno a quelle vicende, a quelle tragedie”.

Nata e cresciuta a Santo Stefano Belbo, paese che diede i natali a Cesare Pavese, Nicoletta respira quotidianamente gli ideali che il padre le insegna e pratica. Valori di libertà, solidarietà, giustizia, che si addicono bene alla sua indole umanitaria. Nel libro descrive il padre come socialista, non credente, che però “…seguiva gli insegnamenti di Cristo”. E ancora, “Nel cortile di casa nostra c’era un posto dove ogni mendicante che passava poteva sedersi a mangiare quello che era possibile offrirgli…” Più tardi, dopo la guerra, nel letto di morte, il padre le vuole rivelare un rimorso per un fatto accaduto quando era giovane. Lei crede che si tratti di chissà quale crimine, e invece le confessa: “Un mattino andavo a caccia e, a un certo punto ho scoperto in un anfratto il giaciglio di una lepre. Punto il fucile e sparo: era un leprone di quasi cinque chili. Non mi sono mai perdonato quella vigliaccheria. Non si spara a un dormiente”.

Nicoletta è Partigiana della prima ora, quando gli esiti della guerra sono ancora incerti, nel nord della penisola dominato dai nazifascisti, quando è ancora conveniente aderire al fascio, o rimanere nascosti o indifferenti. La casa di suo padre diventa subito un luogo di transito e di soggiorno della Resistenza. Appena diciottenne, riceve il suo primo incarico: andare in bicicletta a ritirare una pistola, superando un posto di blocco fascista. Ragazza attraente, con la pistola sotto il seno fermata da una cintura, passa sorridente il posto di blocco tra i saluti e le frasi galanti dei fascisti.

Dopo il suo primo incarico, Nicoletta diventa membro delle formazioni garibaldine del comandante Rocca, con il nome di battaglia Mirka. Le missioni di staffetta si moltiplicano, fino all’avvento delle Repubbliche Partigiane, zone liberate e autonomamente amministrate. In tale periodo di surreale libertà, quando la guerra sembrava finita, lavora come telefonista; ogni paese delle Langhe liberato ha per nome di battaglia un fiore: Canelli si chiama Orchidea, Cassinasco è Garofano, Isola d’Asti è Viola

Ma arrivano i grandi rastrellamenti d’autunno, e la perdita delle zone libere. Ora per Nicoletta finisce l’anonimato, il suo ruolo è conosciuto e inizia quindi la sua vita partigiana interamente clandestina. Catturata il 7 gennaio 1945, assieme all’amica Claudia Perini di Genova, viene sottoposta a numerosi, duri interrogatori. Trasferita ad Asti, in una caserma tedesca, inizia una dura vita carceraria, mentre i pressanti interrogatori continuano. Nessuno si sorprenderebbe se una ragazza diciottenne, intimorita dai metodi nazifascisti, cedesse e cominciasse a parlare. Ma lei non lo fa, continua a sostenere che lavorava come telefonista perché la pagavano bene.

Qui si inserisce un episodio umano che le salvò la vita. Una sera, durante il breve periodo passato nelle zone libere delle Repubbliche Partigiane, Nicoletta e l’amica Claudia avevano fatto la guardia a due giovani tedeschi catturati dai partigiani. Avevano provato pietà per quei due ragazzi intimoriti, e le avevano portato una pagnotta. Adesso, lei prigioniera nella caserma tedesca di Asti, riconosce nel soldato tedesco che piantona l’ingresso, uno dei due ragazzi prigionieri ai quali aveva fatto lei la guardia. Si sente perduta; aveva finora negato il suo coinvolgimento nella Resistenza, ma ora esiste un testimone con i fiocchi. Invece, la notte, mentre sta coricata con l’amica Claudia e cerca di addormentarsi sconfiggendo il freddo e la fame, vede entrare nella penombra il conosciuto tedesco; le due, vicinissime per riscaldarsi, con le mani unite, fingono di dormire; il soldato le copre con una coperta e posa vicino alle mani una borraccia di cioccolata caldissima.

Trasferite alle Carceri Nuove di Torino, vengono liberate il 10 febbraio e tornano a Santo Stefano Belbo, credendo che ormai il calvario sia finito. Il destino, tuttavia, riserva altre sorprese. In quei giorni era stata giustiziata una donna, spia fascista, e i fascisti cercavano vendetta. Il capitano fascista da ordine di arrestare Nicoletta e Claudia. Ma il caso volle che il parroco del paese si trovi nell’ingresso dell’ufficio quando viene dato l’ordine. Prende quindi la bicicletta e si precipita ad avvisarle. Claudia torna a Genova, mentre Nicoletta si trasferisce a Torino, dove continua la sua azione partigiana fino alla Liberazione, distribuendo stampa clandestina in città e dintorni.

Oggi la novantenne Nicoletta è la stessa ragazza di allora. Lo stesso spirito combattivo, la stessa umanità.

Qui sotto, il link a un video dove Nicoletta racconta episodi di vita partigiana.

http://www.memoro.org/it/Staffetta-per-la-Libertà-(4Parte)_8910.html