Brexit entro il 31 ottobre: cosa succede nel Regno unito di Boris Johnson

Boris Johnson, nuovo Primo ministro del Regno unito e leader del partito conservatore ha annunciato che, indipendentemente dall’esito delle trattative con l’Unione europea, la brexit verrà portata a termine entro il prossimo 31 ottobre.

Abbiamo intervistato David Broder, storico e traduttore inglese, redattore europeo di Jacobin Usa.

Intervista a David Broder a cura di Giacomo Pellini

 

BJ ha definito l’accordo May “il migliore possibile” ma questo è stato bocciato 3 volte in Parlamento e la commissione non vuole trattare. Che si farà ora? C’è il pericolo di un no deal?

Infatti Johnson ha promesso di riaprire le trattative con l’Ue, insistendo che sia possibile togliere il backstop (cioè l’allineamento obbligatorio delle regole e degli standard con quelle/i del Ue nel caso che non sia superato da un nuovo accordo). Ma la sua posizione (e anche il tono in cui parla) non augura un nuovo accordo con l’Ue. Ha rifiutato di discutere con Macron, Merkel ed il taoiseach (presidente del consiglio) irlandese Leo Varadkar finché non sia abbandonato, preliminarmente, questo backstop. L’Ue insiste che va mantenuto (almeno come politica di “ultima risorsa” e in generale non vogliono ridiscutere dell’accordo già raggiunto con May). Una via d’uscita c’è: gli accordi con May consistono del Withdrawal Agreement stesso (che stipula i termini formali dell’uscita inglese, e del periodo di transizione) e la Political Declaration, che offre una descrizione assai vaga degli intenti delle due parti e non ha la forza di un contratto formale. Johnson potrebbe chiedere una nuova versione di quest’ultimo documento e, allegandolo all’accordo May, presentare questo cambiamento come una vittoria.

 

La maggioranza in Parlamento è risicata e ci sono tensioni anche con il Dup per la questione del backstop. Si andrà a nuove elezioni?

Molto probabilmente sì. Il presidente del partito conservatore James Cleverly (nonostante il nome non è così intelligente) ha promesso domenica che il governo non “provocherà” nuove elezioni, ma è molto probabile che i partiti d’opposizione saranno in grado di forzare la mano. Avendo perso la circoscrizione di Brecon and Radnorshire a vantaggio dei Liberali-Democratici in una elezione parziale giovedì scorso, Johnson ha una maggioranza effettiva di un solo seggio (anche considerando i voti del Dup, nonché la politica astensionista di Sinn Féin). E c’è un gruppo consistente di deputati conservatori, il cui leader è l’ex-cancelliere Philip Hammond, che ha promesso di bloccare ogni tentativo di uscire dall’Ue senza un accordo (i laburisti “ribelli” e pro-no-deal sono, invece, in molto pochi). Quindi è molto probabile che nei primi di settembre Jeremy Corbyn presenterà una mozione di sfiducia e il governo sarà sconfitto, anche con l’aiuto dei propri deputati ribelli. Non c’è una maggioranza alternativa (anche perché Hammond ecc. non potrebbero mai sostenere un governo Corbyn) quindi si andrà alle elezioni, anche prima del 31 ottobre.

 

In questo quadro è possibile per i conservatori un’alleanza con Farage e il Brexit Party?

Probabilmente no, la politica di Johnson è di schiacciare il Brexit Party anziché trovare un compromesso con esso. La minaccia che questo partito presenta è quella di minare il voto Tory, ma in questo momento, dopo l’elezione di Johnson quale leader dei conservatori, Farage scommette soprattutto sui mesi dopo il 31 ottobre, nel caso che non saremo già usciti dall’Ue come promesso.  Fu indicativo il voto di Brecon and Radnorshire – tutti pensavano possibile, qualche settimana prima del voto, una vittoria del Brexit Party, ma nei fatti l’80 percento del voto pro-Leave si è polarizzato attorno al candidato conservatore e il candidato di Farage ha preso solo il 10 percento. Se non ci fosse stato il candidato di Farage, questo Tory avrebbe vinto questo seggio. Quindi è più probabile che vedremo un calo molto forte del voto al Brexit Party (secondo i sondaggi, verso il 6-8%), almeno che Johnson non abbandoni la sua posizione, ancora molto netta, che prevede una brexit entro il 31 ottobre.

 

BJ non vuole trattare sul backstop. Ma un no deal potrebbe disgregare il Regno Unito?

Sì, soprattutto avrebbe l’effetto di avviare l’unificazione dell’Irlanda. Già si vede una profonda crisi del sistema di governo nella “Provincia” nordirlandese – sono già due anni che il suo Parlamento è sciolto, e l’alleanza ferma tra il governo Tory a Londra e il Dup (il primo partito in Irlanda del nord, comunque molto minoritario, arretrato e settario – definito da alcuni”l’espressione politica del Settecento”) ha esacerbato lo scarto tra la situazione politica e le aspettative della popolazione. Se negli ultimi decenni si era creata per la prima volta una classe media cattolica, integrata allo stato vigente, questa crisi ha rafforzato di nuovo la sua anima repubblicana (pro-unificazione) e adesso si vede anche una parte più liberale della gioventù protestante, pro-Remain e anti-Dup, riconciliarsi alla possibilità della riunificazione. La maggioranza (55%) dei nordirlandesi ha votato per il Remain, e sarebbero loro a subire l’impatto di una Brexit no deal, che creerebbe ogni tipo di problema alla frontiera (la sola frontiera territoriale tra l’Ue e il Regno unito), dove ci sono più di 200 attraversamenti l’ora tra i due paesi. Si parla di un referendum sull’unificazione entro 10 anni, sebbene non è scontato che vincerebbe l’unificazione, o che Dublino vorrebbe effettivamente affrontare tutti i problemi dell’unificazione, incorporando il vasto settore pubblico nordirlandese nonché tutti i problemi del settarismo comunitario-religioso.

Più difficile la situazione scozzese: sebbene c’è un rifiuto politico di Johnson, e si è votato al 63 percento per il Remain, l’effetto della Brexit no deal sarebbe quello di rendere più difficile la secessione scozzese. Se nel caso irlandese si parla di sciogliere il confine “interno”, riunificando l’isola, invece nel caso scozzese l’indipendenza richiederebbe di creare nuovi controlli doganali tra una Scozia pro-Ue, con l’Inghilterra isolata.

 

Corbyn ha dichiarato una mozione di sfiducia a settembre. Ma quali sono gli strumenti che ha il Labour per fermare la Brexit? 

Solo questo. Se non ci saranno elezioni anticipate, dovremo uscire il 31 ottobre. Anche nel caso in cui Johnson non saprà raggiungere un nuovo accordo con l’Ue o convincere il Parlamento dei meriti di un’uscita no deal, il mero fatto di rimanere presidente del consiglio gli consentirebbe di provocare l’uscita britannica, rifiutando di negoziare una nuova estensione del processo dettato dall’articolo 50. È il premier e non il Parlamento che gode del potere di chiedere questa estensione o meno.

 

Sturgeon ha detto che un secondo referendum è necessario e anche Corbyn si è dichiarato a favore. Ma perché solo ora? Ha influito il cattivo risultato delle europee e il buon risultato dei libdem?

Corbyn voleva riconciliare le due anime dell’elettorato laburista, superando la divisione del referendum del 2016 ma anche un po’ evitando il problema. Alle elezioni politiche del giugno del 2017 (quasi un anno dopo il referendum) tutti pensavano inevitabile la Brexit e quindi si poteva ingaggiare la battaglia elettorale su altri terreni (il NHS, tassi universitari ecc.) In quelle elezioni Corbyn ha preso il 40 percento, perché è riuscito a mantenere l’alleanza tra l’elettorato più “liberale”, urbano e Remainer del partito laburista con quello tendenzialmente più vecchio, bianco e operaio nelle piccole città.

In questo senso, il Labour cercava di dividere il campo politico sulla base dei problemi di classe e non con la “guerra tra culture” promossa sia dai Libdem che dall’estrema destra. Ma questa era anche una politica di ambiguità strategica, condannando l’approccio del governo May ma non chiedendo un nuovo referendum. Ciò che permetteva questa ambiguità strategica era la possibilità che May avrebbe comunque fatto passare il suo accordo, molto debole, minando l’autorevolezza del partito conservatore e permettendo una vittoria del Labour alle elezioni politiche dopo-Brexit, a fait accompli.

Il mero fatto che May non ce l’ha fatto ha tolto questa possibilità – Labour dovrebbe oramai presentare una propria posizione, più coerente. Ma senz’altro questo cambiamento nella politica del partito è soprattutto l’effetto della crescita dei Libdem e (di conseguenza) la pressione esercitata dalla maggioranza dei deputati laburisti, i quali non hanno mai voluto uscire dall’Ue e accettarono il risultato del referendum senza alcun entusiasmo.

 

Alle ultime europee anche i verdi hanno ottenuto un buon risultato, sull’onda della dichiarazione di disastro climatico di InghIterra e Scozia. Il regno unito è sempre più sensibile alle tematiche green? O ha influito anche altro?

Si vede la sensibilità green soprattutto al livello meno prettamente politico, anche nella crescita molto forte del veganismo e della sensibilizzazione di massa a questo tipo di problema. Al livello politico è un fenomeno assai superficiale e strumentalizzato, anche nel 2005 David Cameron si è proclamato “green”. Il risultato per il partito verde alle europee era assai forte, ma anche quello alle elezioni europee nel 1989 (il suo primo breakthrough al livello nazionale) era superiore a quello del 2019. Questo voto rimane poco consistente o radicato, e non ha lo stesso ruolo “establishment” dei Grünen tedeschi (il nuovo partito di centro, in qualche aspetto anche simile alla rigenerazione della classe politica liberale operata da Emmanuel Macron).  È percepito come un’alternativa vagamente progressista e europeista sebbene ci sono anche alcuni attivisti più radicali. Sebbene il partito laburista offre soluzioni anche radicali a questo problema (ad esempio il Green New Deal), il voto verde ha anche un’aspetto più identitario (quello di chi vuole “percepirsi” progressista) anziché dipendere strettamente del suo programma politico . In generale, temo che non prendiamo molto sul serio il problema climatico nel Regno unito, sebbene rimane più possibile immaginare la fine del mondo che immaginare la risoluzione dell’impasse sulla Brexit.