Il nuovo corso di Confindustria, sotto la presidenza di Carlo Bonomi, è ufficialmente iniziato con l’attacco al Governo sulla gestione della Fase 2, un vero e proprio avvertimento all’esecutivo qualora paventasse nuove strette sulle attività produttive per ragioni sanitarie.
di Adriano Manna
Confindustria vuole riaprire, tutto e subito. Il comportamento dei lavoratori, colpevoli di aver scioperato quando erano costretti a lavorare senza protezioni è tacciato di irresponsabilità, mentre al Governo si chiede di andare oltre i finanziamenti a pioggia di questi mesi, e di predisporre veri e propri investimenti per la ripartenza.
Come nelle migliori tradizioni dell’imprenditoria italiana, non si chiede programmazione economica e neppure, sia mai, un’intervento dello Stato negli asset strategici del Paese, ma sgravi fiscali e investimenti di denaro pubblico a fondo perduto a favore dei privati.
Uno strano modo d’intendere l’imprenditoria: i fallimenti di mercato concettualmente non esistono, ma quando puntualmente arrivano o vengono accentuati da cause esogene, si chiede al pubblico di socializzarne i danni.
I costi dei salari italiani sono ormai tra i più bassi in Europa, mentre la pressione fiscale è certamente tra le più alte, ma viene accompagnata da fenomeni di evasione ed elusione fiscale che non hanno paragoni con nessun altro paese a capitalismo avanzato.
Fin qui però siamo alla scoperta dell’acqua calda e Bonomi si limita a fare il suo lavoro, quello di rappresentare un pezzo di tessuto imprenditoriale del Paese che ha dimostrato per decenni di saper rimanere a galla solo all’interno di questo paradigma.
Tuttavia, il passaggio di governance in Confindustria sembra caratterizzarsi in maniera diversa rispetto al passato per un deciso salto di qualità nel rapporto col decisore pubblico: nella fase precedente Confindustria ha sempre cercato referenti forti nei maggiori partiti del sistema politico italiano, riconoscendo a questi un ruolo di mediazione del proprio interesse particolare.
Oggi, con il nuovo attacco di Bonomi, Confindustria sembra aver definitivamente metabolizzato la crisi del sistema partitico italiano, preferendo unicamente un’azione lobbistica direttamente mirata sull’Esecutivo.
Una disgrazia per i due Mattei: per Renzi che per provare a interpretare la presunta esigenza di Confindustria di avere referenti diretti, aveva addirittura organizzato una scissione dal Partito Democratico. Per il povero Salvini, ormai persuaso da Giorgetti che occorresse qualcosa in più delle felpe coi nomi delle città per accreditarsi come referente stabile del pezzo più oltranzista dell’imprenditoria italiana, e per darsi un tono aveva addirittura cominciato a mettersi gli occhiali.
Tutto inutile. Confindustria la pressione la fa esclusivamente sul Governo ormai, senza mediazioni.
Questo è l’effetto inevitabile della crisi del ruolo del Parlamento ridotto a mero passacarte, (ultimamente, a suon di Dpcm, neanche più a quello) e della sostanziale superfluità dei partiti politici ridotti a meri comitati elettorali, e quindi poco utili una volta superata la fase elettorale.
Per i due personaggi in cerca d’autore la strada ora è tutta in salita. Ma se l’uomo dalle mille felpe è quantomeno ancora in sella al primo partito del Paese (primo per quanto tempo ancora? e quanto reggerà ancora lui alla guida?) per il funambolico toscano le cose si mettono veramente male.
Ce ne faremo una ragione.