Il problema è Repubblica o l’assenza di un partito di sinistra?

Le vicende redazionali che hanno coinvolto quello che era considerato il giornale di riferimento della borghesia progressista italiana, La Repubblica fondata da Eugenio Scalfari, evidenziano un grande problema irrisolto della sinistra italiana. 

di Adriano Manna

Dopo la quantomeno “indelicata” defenestrazione del direttore Carlo Verdelli a favore di Maurizio Molinari (proprio mentre il primo era oggetto di gravi minacce da parte dell’estrema destra), ed il contemporaneo passaggio di proprietà del gruppo editoriale Gedi dalla Cir (la finanziaria della famiglia De Benedetti) alla Exor di John Elkann, ha destato ora molta indignazione il fatto che il neo-direttore Molinari abbia bloccato la pubblicazione sul quotidiano di un comunicato del Comitato di redazione sul caso del prestito Sace-Fca.

Quanto sta accadendo a La Repubblica è ovviamente grave, perché prodotto di una visione puramente padronale dell’informazione, ma può essere forse una buona occasione per squarciare un velo di ipocrisia che copre la discussione sullo stato di salute della sinistra del nostro Paese. Una discussione che, ad essere onesti, dovrebbe andare ben oltre lo stato di salute dell’informazione “progressista”.

Non è di certo una novità che l’editore influenzi la scelta della testata informativa di cui è proprietario, ancor di più in un mondo, quello dell’informazione, che è ormai strutturalmente in perdita e sopravvive principalmente grazie alle iniezioni di liquidità degli stessi editori e, nei casi dei gruppi medio/piccoli, con quel che resta del finanziamento pubblico.

Il tema del pluralismo dell’informazione, del resto, non passa necessariamente per la dialettica interna alla singola testata, quanto per l’esistenza di una pluralità delle testate, ognuna inevitabilmente con un proprio orientamento di massima, una linea editoriale più o meno definita, che il lettore può decidere di premiare o meno acquistando il giornale e scegliendolo quindi come riferimento per informazioni, analisi e commenti.

La mutazione in corso nel quotidiano La Repubblica, duole dirlo, non è una mutazione di carattere strutturale. Era un giornale riferimento di un determinato gruppo economico e tale resta. E’ solo cambiato il gruppo, e quindi gli interessi che questo rappresenta. Se pure De Benedetti per opportunismo o convinzione, ha sposato per lunghi anni una visione liberal (comunque ben distante da una visione di stampo socialista della società), non è assolutamente scontato il fatto che il nuovo editore voglia sposare la stessa linea. Se questa scelta gli costerà la perdita di uno zoccolo di lettori sono affari suoi, sono scelte aziendali che si presuppone abbia ponderato.

Torniamo invece a noi: cosa rimane dell’informazione progressista in Italia? Poco o nulla. Sopravvive Il Manifesto, che comunque si rivolge ad una nicchia di lettori, sopravvive qualche settimanale, ma ormai la stampa è interamente nelle mani di grandi gruppi industriali, e i pochi giornali di opinione rimasti sono quasi tutti orientati molto, molto a destra.

Quando alcuni, pochissimi in realtà, ponevano il tema generale del finanziamento pubblico alla politica e all’informazione, temevano probabilmente l’accelerazione di un processo di “privatizzazione” degli spazi della partecipazione politica e dell’informazione stessa, due elementi che sono strettamente correlati tra loro.

Se la trasformazione in senso privatistico della politica è stata accelerata dal deperimento del finanziamento pubblico, quella dell’informazione è stata promossa in primo luogo dalla cessazione del finanziamento all’editoria per le testate di Partito, e successivamente dalla riduzione dei fondi per le testate indipendenti e locali.

Questa scelta, promossa più recentemente con successo dal M5S e fatta propria dall’allora Pd di Renzi ma presente da tempo nel dibattito pubblico del paese dilaniato dai populismi, non è assolutamente neutrale, poiché chi si fa espressione di determinati gruppi di interesse privati, anche se non ha più una testata giornalistica sua diretta emanazione, può comunque contare sul supporto di quei giornali che a quegli stessi gruppi di interesse fanno capo.

Per una sinistra che volesse fare la sinistra, questo ragionamento ovviamente non varrebbe. La rappresentanza degli interessi del mondo del lavoro presupporrebbe, in assenza di finanziamento pubblico, una capacità di auto-finanziamento dello stesso mondo del lavoro, opera assai ardua per un soggetto che, a seguito di una sconfitta politico-culturale lunga quarant’anni, fa fatica anche solo ad avvertire l’urgenza di riorganizzare il proprio campo.

L’assenza di una macchina organizzata per la partecipazione politica del mondo del lavoro (a meno che non si voglia veramente considerare il Partito democratico come tale, ma occorrerebbe una buona dose d’immaginazione) ha tra i suoi effetti di lungo periodo non solo la perdita di qualsiasi espressione autonoma degli interessi dei lavoratori nel dibattito pubblico, ma il progressivo riposizionamento anche di quei settori della borghesia che, in virtù dei rapporti di forza generali, potevano in alcune fasi collocarsi tatticamente in una posizione dialettica rispetto a questi interessi. Ecco quindi la scomparsa graduale, ma inarrestabile, dei “borghesi illuminati”.

Come affrontare questo problema?

Potrebbe anche darsi che l’attuale deperimento del finanziamento pubblico renda il nostro sistema democratico, sotto quest’aspetto, molto simile al sistema anglo-sassone, dove il sostegno pubblico alla politica e all’editoria è ridotti all’osso. In quel sistema, un supporto fondamentale per la sinistra politica proviene dal Sindacato, quindi da quella che è l’associazione per eccellenza dei lavoratori, che non si limita esclusivamente ad una funzione concertativa (o conflittuale) sul luogo di lavoro, ma contribuisce anche economicamente (quindi svolgendo poi una fondamentale funzione d’influenza) alla sopravvivenza di una rappresentanza politica dei lavoratori.

Del resto, la purtroppo esaurita parentesi di Jeremy Corbyn nel Labour venne resa possibile proprio dall’investimento diretto delle Trade Unions nelle primarie laburiste.

Nella tradizione italiana, partito e sindacato hanno sempre svolto una funzione complementare (il sindacato ai tempi del PCI era anche “cerniera” del Partito col mondo del lavoro) rivendicando tuttavia un’autonomia politica e funzionale l’una dall’altra. Probabilmente oggi, questa impostazione è superata dalla fine dell’autonomia della Politica, che presuppone l’ingresso diretto di tutti i gruppi d’interesse nell’agone politico.

Forse, quello che è al netto di tutto ancora il maggior sindacato del Paese, ossia la Cgil, una riflessione dovrà prima o poi farla. Quale sia la modalità d’intervento ritenuta più opportuna è ovviamente una riflessione che spetta solamente a lei, ma pensare che in questo quadro si possano difendere i diritti dei lavoratori in assenza di un concreto terminale politico, sembra sempre più difficile.

In conclusione, tornando alla questione dell’informazione, sorge il dubbio che invocare uno spazio per l’informazione di sinistra senza porsi il problema dell’esistenza della sinistra in Italia, potrebbe rivelarsi un esercizio assai sterile.