Il sovranismo come rivendicazione di impotenza

Alle prossime elezioni europee i media ci ripetono che lo scontro sarà tra europeisti e nazionalisti, dove i primi sarebbero i rappresentanti delle formazioni tradizionali – con in testa Macron e Merkel – e secondi i partiti e leader che vogliono ridimensionare e cambiare fortemente il ruolo dell’Europa – Salvini e Le Pen.

Intervista di Giacomo Pellini a Tommaso Visone*

 

Per rilanciare il progetto comunitario da sinistra non si dovrebbe andare oltre questi due schieramenti e mettere in campo una terza via progressista che rilanci un progetto europeo basato sull’eguaglianza e sulla lotta alle diseguaglianze?

A mio avviso è importante che alle prossime elezioni europee ci sia quello che è stato chiamato da Varoufakis e Marsili un “Terzo spazio”, uno spazio alternativo, da un lato, all’establishment che ha governato sino ad oggi, e dall’altro al populismo di stampo nazionalista che si fregia del nome di sovranismo quando non fa altro che rappresentare l’impotenza degli stati nazionali e la connessa impotenza delle classi dirigenti – che per questo si riducono a classi dominanti.

Tale impotenza, che è assoluta quando queste “classi dirigenti” che, di fatto, non dirigono, pretendono di agire solo su scala nazionale, diventa invece potenza relativa e mediata (non immediata come pensa qualcuno) quando, dopo essere andate al governo prendono decisioni insieme ad altri governi nazionali: lì pesano di più quelle classi dirigenti legate a nazioni influenti – penso a quella tedesca – che riescono  poi a crare alleanze capaci di incidere realmente e contribuire alla creazione delle regole comuni europee. Ma è chiaro che anche quest’ultime da sole non deciderebbero un bel niente. Esse sono capaci di decisione nell’Unione e grazie all’Unione. Senza la stessa prenderebbero solo ordini dall’esterno. E i cittadini, che giustamente denunciano le storture di questo sistema di governance e la pochezza di queste finte classi dirigenti, non ne trarrebbero alcun beneficio. Perché avrebbero ancora meno potere di farsi sentire rispetto ad oggi. Perderebbero dell’altro terreno e scivolerebbero in una posizione ancora più sfavorevole. Quindi occorre trasformare radicalmente l’Unione nell’interesse dei cittadini (e tramite gli stessi) e non guidarli verso un futuro peggiore.

 

Negli ultimi anni la parola “sovranismo” è sempre più usata nel dibattito accademico e soprattutto mediatico per designare quelle formazioni che auspicano un progressivo ritorno alla sovranità nazionale e a tutte le prerogative che ne comportano, e in generale la possibilità degli stati nazionali di riappropriarsi dei poteri ceduti alle organizzazioni sovranizazionali. Ma stiamo parlando di rivendicazione del diritto di esercitare sovranità oppure parliamo di propaganda che nasconde qualcos’altro di cui la parola sovranismo non è altro che un “patentino di legittimità”?

É un’arma retorica e propagandistica. L’uso che viene fatto oggi del termine sovranismo è particolarmente insidioso. Devo dire che io stesso ho commesso l’errore di utilizzare a volte quest’etichetta impropria nel descrivere i movimenti della destra (o della sinistra) nazionalista.

È sbagliato, anche per il discorso che facevo sopra sulle classi dirigenti e gli stati, usare il termine sovranismo, mentre ha più senso usare quello del nazionalismo per indicare movimenti e formazioni quali la Lega italiana, il Front National francese e l’AFD tedesca. Ha senso parlare di nazionalismo e non di sovranismo perché il sovranismo in quanto tale prevede una rivendicazione di sovranità. Ora, la sovranità è un qualcosa che ha, da una parte, un aspetto di diritto – cioè chi ha il diritto di prendere una decisione in ultima istanza – dall’altra parte, anche un’aspetto di potere – chi ha il potere concreto di prendere una decisione che riguarda la vita di morte di una comunità. La sovranità, tiene insieme questi due aspetti, potere e diritto. Ne rappresenta la mediazione. Se i nazionalisti hanno a volte buon gioco a dire che il diritto per compiere certe scelte (sul sociale ad esempio) spetta agli stati nazionali, è pur vero che sul piano di fatto al giorno d’oggi è impossibile esercitare un’autentica sovranità dal punto di vista degli Stati, perché quest’ultimi non sono in grado di prendere decisioni relative alla vita e alla morte delle loro comunità a partire dal livello nazionale. E non sono in grado di esercitare un potere che sia realmente in grado di incidere sulla politica globale oggi. L’unico modo per avere un “sovranità” reale – e questo è il principale punto di incoerenza dei vari sedicenti “sovranisti”, di fatto nazionalisti – sarebbe quello di dar vita ad una Repubblica europea e creare un popolo europeo che abbia una nuova Costituzione – e quindi dar la possibilità di questo popolo di esercitare sovranità popolare – ma che abbia, dall’altro lato, il potere di fatto – nato dalla sua stessa riarticolazione – di incidere sulla sfera globale portando a casa dei risultati in grado di rendere possibili una efficace politica estera, fiscale e sociale. E questa cosa non può assolutamente avvenire a livello nazionale nell’Europa di oggi.  La rivendicazione dei nazionalisti – o sedicenti “sovranisti” – non è quindi una rivendicazione di sovranità: è una rivendicazione di impotenza.

 

Queste formazioni creano una frattura tra il popolo e le elite, e spesso si dicono portavoce del primo contro le seconde. Ma, nello specifico, di quale elite e di quale popolo parlano?

La cosa drammatica è che molte di queste formazioni intendono il popolo come un’entità “naturale”, pre-esistente, confondono il popolo con un’ethnos, con una comunità di sangue o di lingua. Questo avviene spesso anche con il populismo di sinistra, che punta a parlare del popolo e delle classi popolari come un qualcosa di dato, facendo molta confusione tra quello che è l’interesse di queste ultime e quella che è la loro auto-coscienza odierna. Un tipo di errore, per intenderci, che mai avrebbe fatto, per citare l’autore più strattonato del momento, Antonio Gramsci. Una concezione del mondo, per rifarci a lui, non dovrebbe mai riflettere sic et simpliciter il semplice sentire comune delle classi popolari, ma dovrebbe consentire a queste ultime una progressiva presa di coscienza che gli consenta di farsi, di istituirsi, come soggetto politico all’altezza delle sfide del proprio tempo. Gramsci –ad esempio – ricordava : “la filosofia della praxis non tende a mantenere i «semplici» nella loro filosofia primitiva del senso comune, ma invece a condurli a una concezione superiore della vita. Se afferma l’esigenza del contatto tra intellettuali e semplici non è per limitare l’attività scientifica e per mantenere una unità al basso livello delle masse, ma appunto per costruire un blocco intellettuale che renda politicamente possibile un progresso intellettuale di massa e non solo di scarsi gruppi intellettuali”. E non mi dilungo sull’importanza che Gramsci dava al “Cosmopolitismo di tipo nuovo”, dato che – salvo la lodevole eccezione di Francesca Izzo – sembra essere stato rimosso da un dibattito odierno volto a promuovere, colpevolmente, Gramsci come presunto difensore del messaggio nazional-popolare/populista. Quella che viene propugnata quest’oggi – magari sotto il segno di un falso populismo neogramsciano – è, quindi, un’idea di popolo completamente sbagliata e reazionaria. A riguardo Michele Filippini ha scritto su “Jacobin Italia” un ottimo articolo e penso che non ci sia molto altro da aggiungere.

Vi è poi un’altra contraddizione riguardante il popolo inteso come ethnos: non esistono, volendo usare quest’accezione, popoli a livello nazionale neanche all’interno dei singoli stati. I popoli/etnoi sono ampliamente frazionati anche all’interno dei contenitori nazionali. Eclatante è il caso dell’Italia, con le differenze enormi che esistono, solo per fare un esempio, tra il Sud e il Nord: questo è evidente nei dati elettorali, pensiamo al successo che ha avuto il M5S nel meridione e quanto poco ne abbia avuto nel Nord. Questo ci mostra che in Italia ci sono almeno due “popoli” completamente differenti e politicamente divisi. E questo avviene in molte altre parti d’Europa, pensiamo alla questione catalana o a quella scozzese, o alle distanze economiche, sociali e culturali (l’aver fatto o meno l’esperienza del socialismo reale) tra Germania dell’ Est e quella dell’Ovest – evidenti anche nei flussi elettorali, dove nell’Est l’AFD viaggia a percentuali che si sognerebbe nell’Ovest. Questa è l’Europa: se pensiamo al popolo come ethnos stiamo aprendo le porte alla disintegrazione non solo dell’UE ma anche degli Stati Nazionali per come li conosciamo.

 

Esiste un’alternativa a questa lettura del popolo ?

Si. Il popolo può essere pensato come una soggettività artificiale nel momento in cui viene concepito come un demos, un qualcosa di costruito e che si costruisce tramite un atto politico e la creazione di istituzioni, e attorno a un processo di reciproco riconoscimento da parte degli individui e delle collettività che entrano a far parte di tale processo trasformativo. E questo è un fenomeno antico che si lega alla creazione del demos della polis ateniese a partire da Clistene, nel VI secolo a.c, quando vengono aboliti i patronimici e le antiche distinzioni sulla base dei vecchi clan, e si creano nuove entità amministrative i demi e un nuovo sistema di comune ed eguale partecipazione. Questo permette di mescolare i cittadini secondo il principio pitagorico dell’anamixis creando così di fatto i nuovi ateniesi, che non si sentono più membri di questo o di qual clan, ma si sentono eguali, avendo perso le antiche distinzioni su base etnica e clanica. Questo tipo di meccanismo, che è lo stesso che si mette in moto durante la Rivoluzione Francese, quando  vengono abolite le vecchie Province e creati i Dipartimenti per rendere più uniforme il territorio, facendo venire meno il potere locale delle aristocrazie, e permettendo ai cittadini di riconoscersi l’uno nell’altro, o quando vengono abolite le corporazioni e i vincoli feudali. E quando si ha la svolta costituzionale che crea un potere unico in America, di stampo federale non confederale.

Tutti questi sono processi che cercano di creare, in maniera diversa, una nuova “polis” al di là delle vecchie appartenenze, un sistema sociale e politico che consenta ai cittadini  di sentirsi parte di una soggettività comune, animata da eguali che si riconoscono come tali tra di loro. E questo avviene tramite un preciso rimescolamento e la messa in discussione delle vecchie divisioni “sovrane” che aprono le porte a una nuova identità comune, a un “meticciato” artificiale. Questo “meticciato secondo ragione” può essere realizzato in forma estrema e totalizzante (l’Atene classica) o parziale e mitigata (gli Stati Uniti).  Il federalismo, in merito, è il sistema che consente di equilibrare meglio la diversità con l’eguaglianza, correggendone i rischi di totalizzazione ed uniformazione. Ma questo elemento di istituzione della reciprocità nel mutuo riconoscimento e nella partecipazione, di artificio che rimescola le differenze al fine di istituire un popolo di eguali, è quello che caratterizza una democrazia rispetto a una babele, a un regime di altro tipo. Ed è infine quello che consente di dare vita a un popolo che non sia semplicemente segnato da un dato biologico o da un lascito culturale che non si è scelto ma si è solo ricevuto. Quella del demos è, in breve e senza volerne sottovalutare i rischi e le difficoltà, la strada migliore verso una libertà che difficilmente può essere realizzata o difesa nella sola  – per quel che ne resta- sfera privata.

 

*Tommaso Visone è professore a contratto in Political Thought for Colonization and Decolonization presso il dipartimento Coris dell’Università La Sapienza di Roma e assegnista di ricerca in Storia del pensiero economico presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Roma Tre. Co-dirige la collana “Teoria e Ricerca Sociale e Politica” presso la casa editrice Altravista di Pavia.