Le dimissioni di Zingaretti e quella resa dei conti non più rimandabile

Le dimissioni annunciate ieri di Nicola Zingaretti da segretario del PD certificano la crisi di un partito che ha fatto del Governo la sua ragion d’essere. Ed oggi fa fatica a trovare una sua funzione.

Le parole usate dall’ex segretario PD nell’annunciare le sue dimissioni sono le più dure che ci si potesse immaginare: “Lo stillicidio non finisce. Mi vergogno che nel Pd, partito di cui sono segretario, da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid”.

Parole che pesano come macigni, compromettendo seriamente l’immagine del partito stesso presso l’opinione pubblica poiché pronunciate non da uno dei suoi tanti detrattori, ma dal segretario stesso che sembra così fare una dichiarazione d’impotenza dinanzi ai mali degenerativi di un partito nato male, e che oggi rischia di morire anche peggio.

La crisi del PD ha origini lontane, che provengono probabilmente dal suo stesso atto fondativo e dall’idea di superare dialetticamente la cultura social-democratica degli ex-DS e del cattolicesimo sociale della sinistra democristiana in una sintesi che attingesse dal New Labour blairiano e dalla cultura democratica americana. Un esperimento di ingegneria politica maldestro, che ha dato vita ad un partito il cui unico orizzonte è stato la funzione di governo e di gestione dello status quo. Non è un caso che le contraddizioni più gravi emergano proprio adesso, con l’avvento del Governo Draghi, il cui impianto di “governo di salvezza nazionale” sfuma i confini ideali tra i partiti, realizzando congiunturalmente (e temporaneamente) quell’ideale “partito della nazione” di veltroniana memoria.

Occorrerebbe poi parlare della sinistra in questo paese, se esiste ancora e se il PD rappresenti il principale riferimento del campo progressista. Elettoralmente è così, c’è poco da fare. Culturalmente il PD, nella sua costante ricerca di un superamento del paradigma novecentesco, è finito per sgretolare l’impianto culturale, organizzativo e valoriale della sinistra italiana, permettendo financo ad un Renzi e alla cultura politica che egli rappresenta di impadronirsi prima di quella struttura che aveva ereditato quasi in blocco il patrimonio organizzativo della sinistra, e poi di abbandonarne la carcassa avvelenando i pozzi, lasciando in ruoli apicali suoi uomini col solo obbiettivo di vietnamizzare il dibattito interno e assistere al suo collasso.

In questo momento è difficile decifrare quali siano le reali intenzioni dell’ormai ex segretario, ma non può non sapere che con questa mossa (dal suo punto di vista legittima, sia ben inteso), porterà ad una accelerazione della crisi interna del partito. Probabilmente il suo primo intento è quello di far uscire allo scoperto i renziani, che da settimane bombardano la segreteria con ogni pretesto, ma il rischio che sia l’intera impalcatura del partito a non reggere è un’ipotesi che non può non aver preso in considerazione.

 

Si creano spazi a sinistra? 

Se da questa crisi possano nascere spazi per una riaggregazione a sinistra del PD è difficile a dirsi, ma sembra onestamente improbabile. L’incapacità di riorganizzare un campo della sinistra autonoma dal PD è sistematicamente fallito per l’incapacità del ceto dirigente che questo processo l’ha sempre a mala pena abbozzato, non certo per l’esistenza stessa dei democratici che quello spazio non l’hanno mai voluto veramente preservare.

L’ultima mossa che rimane alla componente di sinistra rimasta nel partito, invece, è probabilmente quella di sfidare apertamente l’ala autoproclamatasi “riformista” (gli ex-renziani) sul campo di un vero dibattito congressuale, che faccia emergere chiaramente le differenze programmatiche e valoriali e che porti alla conseguente resa dei conti. Solo così il PD potrà sperare di avere un suo profilo programmatico, identitario e valoriale.

Sempre che non sia troppo tardi.