Mettiamo in quarantena la sinistra liberal

In un articolo pubblicato pochi giorni fa su Strisciarossa, il sempre ottimo Michele Prospero ha offerto un’efficace analisi degli errori commessi dalla sinistra italiana quasi interamente conquistata, in questi ultimi decenni, dal paradigma offerto dal pensiero liberista dominante.

di Adriano Manna

Si tratta di una critica che potrebbe apparire quasi scontata per coloro che questa deriva la denunciavano da tempo ma che oggi, davanti a questa devastante crisi sanitaria, economica e sociale, diventa ancor più efficace ed urgente.

Nell’articolo si offre un’efficace sintesi del pensiero di Michele Salvati, economista di riferimento del nuovo ciclo della sinistra dopo la liquidazione del PCI. Si tratta del teorizzatore di riferimento, per la sinistra nostrana, del superamento del paradigma dell’economia mista, che aveva caratterizzato il modello di sviluppo economico italiano nel dopoguerra grazie a un sistema di relazioni industriali e sociali che, oltre a permettere al nostro paese di diventare uno dei più industrializzati al mondo, si era rivelato idoneo alla costruzione di un consenso di massa per la sinistra, specialmente tra i lavoratori.

L’idea di fondo era che la sinistra liberal dovesse mettere a disposizione la propria egemonia nel mondo del lavoro per “guidare” una trasformazione in senso liberista del modello produttivo italiano, che lo rendesse in grado di competere sui mercati internazionali.

L’ambiguità di una tale visione, sul piano più prettamente politico, è gigantesca: l’idea che porsi come “avanguardia” nel processo di trasformazione produttiva del paese permettesse a questa nuova sinistra liberal di conquistare un’egemonia su più larghi strati della società, si è rivelata un’impostazione dai tratti quasi criminali, oltre che perdente.

Il processo di trasformazione, infatti, presupponeva per sua natura strutturale la fine del primato della politica a vantaggio del potere economico, che già nel medio periodo avrebbe poi plasmato le organizzazioni politiche (anche della sinistra) in un’ottica di rappresentanza di interessi economici particolari, piuttosto che di blocchi sociali più o meno definiti.

Ma se questi ragionamenti possono apparire scontati a molti dei lettori, quale può essere l’aggiornamento dell’analisi ai tempi della pandemia?

La devastante crisi di questi giorni, che pure nell’economia non nasce ma inevitabilmente su di essa si scaricherà, sembra mettere prepotentemente in discussione il paradigma liberista che intendeva lo Stato come mero arbitro del corretto svolgimento della competizione economica, o al massimo come caritatevole soccorritore del mercato dinanzi ai suoi più evidenti fallimenti, per mezzo di costosissime socializzazioni delle perdite private (da ripianare col denaro dei contribuenti, ovviamente).

Lo stesso processo di scheletrizzazione del welfare, funzionale in primo luogo a favorire la circolazione del fattore lavoro (in particolare nell’area del mercato unico europeo) viene oggi messo sul banco degli imputati a partire dai continui tagli effettuati sulla sanità pubblica, trovatasi impreparata ad affrontare una crisi di dimensioni non prevedibili, a cui si sta provando ora a venire in soccorso tramite inedite, per gli ultimi decenni, iniezioni di liquidità pubblica.

Inutile girarci intorno, anche i custodi dell’ortodossia liberista in queste ore si sono arresi all’evidenza: occorrerà un’ingente iniezione di denaro pubblico per permettere all’economia di rimettersi in moto in tutto il mondo, quando arriverà il post-crisi.

Ma non basterà una generosa iniezione di denaro fresco (che comunque i falchi dell’economia neomonetarista stanno provando ad osteggiare in ambito europeo): la crisi ha evidenziato la debolezza di paesi, come il nostro, che da decenni si erano negati la possibilità di programmare e implementare una strategia industriale nazionale.

Eppure, attribuire un effetto palingenetico alla catastrofe in corso potrebbe essere assai fuorviante poiché, se pure questi fattori sono probabilmente indispensabili per definire un’uscita dalla crisi in senso progressivo, sono tutt’altro che sufficienti.

A ricordarcelo immediatamente ci ha pensato, suo malgrado, proprio colui che più di tutti ha personificato la sinistra liberal italiana nel passato recente: Romano Prodi. In una recente intervista al programma televisivo “Piazza Pulita”, il professore bolognese ha ricordato come l’Italia possa avere, nella fase di ripresa delle attività economiche, un vantaggio comparato rispetto agli altri paesi rappresentato dal basso livello dei salari interni. Occorrerebbe quindi un chiaro piano industriale, la capacità dello stato di “farsi sentire” attraverso un chiaro sostegno in termini di liquidità per le imprese ormai stremate, per permettere al paese di rimettersi in carreggiata.

Ne siamo certi: un piano di siffatta natura troverebbe concordi personaggi politici di varia derivazione: dai liberisti rinnegati dinanzi ai fallimenti del mercato malato di covid-19, fino agli sciacalli sovranisti nostrani, che potrebbero finalmente sbandierare l’orgoglio nazionale del rinato made in Italy.

L’unica differenza tra la gestione della sinistra liberal con una destra sovranista sarebbe probabilmente rinvenibile nell’approccio da seguire riguardo al tema della globalizzazione: da salvaguardare nei limiti di un comunque inevitabile accorciamento della filiera produttiva per i primi, da mettere in soffitta in nome del protezionismo interno e dell’orgoglio nazionalista per gli altri.

La prospettiva complessiva, del resto, risulterebbe essere quella di scaricare ancora una volta sul mondo del lavoro i costi dell’ennesima crisi, con lo Stato chiamato a “metterci una pezza” attraverso un welfare congiunturale che avrebbe come unica funzione quella di evitare uno strappo del tessuto sociale specialmente nelle zone più povere e arretrate del paese, dove la situazione è a un passo dal divenire incandescente.

E allora, se il ritorno dello Stato apre potenzialmente scenari favorevoli a un cambiamento dei rapporti di forza nella società, rimane centrale in questa fase la partita per una gestione democratica dei rischi derivanti dal collasso sistemico a cui l’Italia, molto probabilmente, andrà incontro.

L’autonomia della politica, indispensabile perché alla ricomparsa dello Stato corrisponda una politica redistributiva delle ricchezze e dei costi derivanti dalla crisi, passa inevitabilmente dalla riorganizzazione, sul piano della rappresentanza politica, di quei settori sociali che sono gli unici ad avere interesse affinché questa redistribuzione avvenga, ossia quelli espressione del mondo del lavoro.

La riorganizzazione di una sinistra rappresentativa del mondo del lavoro diviene quindi, ancora oggi, necessità storica, anzi. Dinanzi ad una tragica finestra della storia che sembra suggerire con forza l’ineluttabilità di un nuovo cambiamento di paradigma, quella di una nuova sinistra socialista diviene una responsabilità storica.