Di Roberto Fineschi – Observatorio de la crisis
Premessa
La prima difficoltà nell’affrontare il tema proposto nasce dalla definizione articolata della categoria stessa di marxismo. Nel dibattito attuale si tende a distinguere tra (i) Marx come fondatore di una teoria della storia che emerge dall’esperienza pratica ed è capace di conseguenze pratiche, (ii) il marxismo, in generale, come tentativo di applicarla alla realtà con dei trasformatori, e (iii) i marxismi, al plurale, come forme diversificate attraverso cui tale tentativo si realizza[1].
Discuteremo anche la misura in cui i vari marxismi sono stati coerenti con il quadro generale della teoria di Marx, soprattutto oggi alla luce delle innovazioni emerse con la pubblicazione della nuova edizione storico-critica[2].
In via preliminare, mi atterrò a questa articolazione, declinando così il tema da una possibile identificazione di quello che è stato il marxismo peculiare entrato in crisi negli anni Settanta; tuttavia, dato che il cardine di questo approccio è la dialettica mediata di teoria e pratica, del movimento reale e della sua trasposizione politica, ritengo necessaria una premessa storico-reale e non meramente teorica. Le riflessioni qui proposte sono di carattere preliminare e dovranno essere verificate in studi più approfonditi.
1. Il marxismo-leninismo del PCI e la sua evoluzione negli anni Settanta
Credo che si debba partire dall’individuazione dei tratti caratteristici del particolare “marxismo-leninismo” del PCI, una forma di organizzazione pratica e politica egemone in Italia, un adattamento togliattiano dell’ispirazione della tradizione sovietica sul modello del nuovo Partito. [3]. Procedendo in modo estremamente schematico e approssimativo, credo che si possano individuare alcuni punti chiave:
1) la classe operaia come soggetto antagonista. L’idea della tendenza alla polarizzazione sociale tra operai e capitalisti;
2) l’alleanza con i contadini per la formazione del blocco storico;
3) il partito come entità organizzativa con una sua forte struttura centrale e una sua ampia diffusione nella produzione e nella società civile;
4) la proprietà e la gestione statale della produzione come obiettivo a lungo termine della realizzazione del socialismo, più o meno sulla falsariga del modello sovietico; il concetto di egemonia per la progressiva formazione di un senso comune comunista che andasse di pari passo con i cambiamenti strutturali;
5) l’idea che la questione strutturale fosse risolta, nel senso che, come afferma Gramsci nei Quaderni, le premesse materiali erano già stabilite. Da questo punto di vista, la questione della rivoluzione diventava squisitamente – o esclusivamente – sovrastrutturale.
Se questa schematizzazione sommaria può costituire un primo punto di partenza, cosa rimane dopo i cambiamenti avvenuti nella dinamica del modo di produzione capitalistico dal primo dopoguerra a oggi?[4] Cosa rimane dopo la rivoluzione?
A partire dagli anni Cinquanta, gli agricoltori sono andati via via scomparendo. Negli anni ’70, con l’inizio dell’automazione, della delocalizzazione e così via, anche i lavoratori tendono a diminuire. Anche i lavoratori tendono a diminuire.
La società, lungi dal polarizzarsi tra lavoratori e capitalisti, tende piuttosto a moltiplicare gli attori che sembrano differenziarsi sempre più per tipo di lavoro. Con ciò, gli assunti 1 e 2 sono entrati in profonda crisi. A chi rivolgersi allora? Chi sono i soggetti storici del cambiamento? Soprattutto per diventare la maggioranza?
La progressiva proprietà statale e la gestione occidentale dell’economia sembravano essere il modello più efficace; questo, però, è entrato in crisi con l’idea di “andare fino in fondo”, cioè con la nazionalizzazione universale, o con il modello sovietico che, sempre più evidentemente, sembrava malfunzionare da tutti i punti di vista: produttivo, sociale, giuridico.
Venuta meno l’alternativa epocale, la strada percorribile sembrava essere quella proposta dall’Occidente socialmente più avanzato, cioè la socialdemocrazia. Se da un lato questa scelta era criticabile come moderata, dall’altro era ovviamente dettata dalla mancanza di una terza via da proporre (a parte i salti nel vuoto per raggiungerla, nessuno sa esattamente quale).
Gettarsi nelle braccia dell’Occidente per quanto riguarda la teoria delle questioni strutturali era una conseguenza del quinto punto: se infatti la questione della struttura era considerata sostanzialmente risolta e si trattava solo di gestire la transizione, vi si rinunciava.
Con i cambiamenti storici epocali iniziati negli anni Cinquanta e poi ancora più drasticamente negli anni Settanta (nel giro di vent’anni l’Italia passò da paese agricolo a paese post-industriale), tutto il mondo reale in cui si trovava l’apparato teorico, così come descritto, scomparve progressivamente.
Rimaneva solo il partito come struttura di gestione centrale e organizzata territorialmente. La strategia possibile allora non poteva che essere il “governativismo” per creare una socialdemocrazia in modo più efficiente e onesto rispetto alla corrotta e maldestra Democrazia Cristiana. Questa prospettiva, sempre puramente teorica finché esisteva l’Unione Sovietica, il veto atlantico che ancora incombeva su un aspirante PCI, significava diverse cose:
– accettare la socialdemocrazia, basata su un massiccio coinvolgimento dello Stato nell’economia nazionale in cui, tuttavia, il capitalismo viene mantenuto come struttura;
– rivolgersi genericamente a una popolazione eterogenea e priva di connotazioni di classe come elettorato di riferimento;
– l’esito generalmente consociativo di questa pratica ha portato a soddisfare sempre più le esigenze imprenditoriali; questo anche perché, mancando un’idea concreta di sviluppo economico, si è finito per inseguire idee e proposte di chi aveva qualcosa da dire, cioè del capitale;
– ridisegnare una prospettiva di “sinistra” come promozione dei diritti civili (quelli che si supponevano sacrificati in Unione Sovietica servivano anche a compensare il cambiamento) e il mantenimento (ma sempre un po’ meno) dei diritti sociali conquistati in decenni di lotte nel passato; ma senza un’idea delle tendenze storiche e una teoria economica alternativa. Alla fine non restava che accettare le proposte del capitale, che d’altra parte aveva le idee molto chiare e si muoveva sempre più in direzione neoliberista;
– il partito organizzato fu così utilizzato proprio come canale di diffusione della controrivoluzione liberale, imponendo quelle opzioni contro le quali aveva attuato uno sciopero di massa fino a due giorni prima; una volta ottenuto questo risultato, non restava che smantellarlo come entità politica e territoriale organizzata e riconfigurarlo come un vecchio comitato d’affari la cui unica connotazione di sinistra rimaneva la difesa liberale dei diritti civili e di un certo stato sociale.
Le trasformazioni storico-sociali del capitalismo crepuscolare[5] avevano sostanzialmente fatto emergere una nuova fase del capitalismo che non poteva essere compresa sulla base dei vecchi schemi; la vecchia strumentazione non aveva categorie per comprendere e agire in questa nuova realtà.
Le domande a cui la teoria non sembrava in grado di rispondere erano fondamentalmente due: 1) la questione dei soggetti storici, 2) le forme della transizione e quelle di una possibile società futura, ma non nei termini di come potrebbe apparire in un futuro rivoluzionario, bensì di come si stava sviluppando attraverso processi “reali”.
2. Problemi teorici e pratici e tentativi di soluzione
Le implicazioni politiche della crisi reale di questo modello teorico si riflettevano nella politica del PCI di Berlinguer[6]. Gli anni Settanta furono segnati dalla strategia del “compromesso storico” che, nella mente dei suoi promotori, si basava su due fondamentali premesse teoriche, strategiche e fattuali:
la crisi del comunismo sovietico come modello di socialismo praticabile in Occidente (in realtà cominciava a emergere l’idea della sua impraticabilità in generale): non funzionava perché autoritario (le vicende ungheresi e poi cecoslovacche lo avevano dimostrato) e il comunismo come extraeuropeo (impossibile da realizzare in Europa occidentale con la sua complessa stratificazione sociale e le sue ampie libertà formali);
2) il colpo di Stato in Cile: un percorso parlamentare verso il socialismo non era possibile perché, anche in caso di vittoria elettorale, le forze dell’imperialismo mondiale avrebbero posto violentemente fine a questa esperienza.
Dati questi due presupposti, il governo socialdemocratico era l’unica strada percorribile; ma la strategia per affrontare la gestione del potere e la trasformazione della società italiana poteva essere realizzata solo attraverso due passaggi fondamentali:
1) rendersi accettabili ai padroni militari dell’Occidente (gli Stati Uniti), il che implicava il riconoscimento di essere in territorio nemico e la conseguente sottomissione alle loro regole sull’uso estremo della violenza. Ciò ha comportato la permanenza sotto l’ombrello protettivo della NATO, parallelamente alla presa di distanza dall’Unione Sovietica (percorso autonomo);
2) l’allargamento della base di sostegno, ora democratica (non più operai e contadini) e non più solo socialista per includere le forze borghesi progressiste.
In caso di vittoria elettorale di questo fronte, anche se avessero cercato di reprimere tale governo con mezzi autoritari, l’opposizione nella società civile sarebbe stata troppo forte, in quanto avrebbe incluso parte delle stesse forze borghesi.
Il grande blocco di sinistra storica già formato era stato sufficiente fino ad allora per resistere ai tentativi di colpo di Stato, ma non sarebbe stato sufficiente in caso di vittoria elettorale di un fronte di sinistra (vedi Cile). D’altra parte, l’elemento democratico all’interno della coalizione cristiana era valorizzato, sia all’esterno che all’interno del partito istituzione della Democrazia Cristiana.
Le vere premesse di questa politica sono le due evidenziate sopra: 1) la ridefinizione del soggetto storico (non più i lavoratori come antitesi fondamentale), 2) la scomparsa della prospettiva storico-trasformativa per mancanza di un punto di vista realistico da proporre.
Questa strategia è stata trasposta come una questione di legittimazione democratica, ma si è sviluppata interamente nei termini imposti dalla Guerra Fredda. In realtà, quel poco di democrazia che esisteva nella Repubblica italiana era il risultato dell’azione del Partito Comunista e di altre forze popolari e aveva poco o nulla a che fare con il mondo liberale occidentale.
Tuttavia, la logica della Guerra Fredda e le carenze in materia di diritti della persona nell’Europa dell’Est imponevano di inquadrare la discussione in termini individualistici di natura liberale. Da qui l’errore fondamentale di ridurre la questione della democrazia a libertà borghesi formali, o di accettare la discussione nei termini stabiliti dall’avversario.
Questo comprendeva anche una posizione sul leninismo che oscillava tra il superamento e la conservazione, sempre con una serie di distinguo e precisazioni che tradivano la necessità di abbandonare quell’eredità ritenuta praticamente inutile ma allo stesso tempo parte costitutiva e necessaria di una forte identità politica che andava mantenuta. La soluzione proposta era quella della validità in determinate circostanze e del suo superamento quando si presentavano altre circostanze.
L’altro aspetto fondamentale, in un certo senso risalente a Gramsci, era la consapevolezza che in Occidente la società era più complessa, che erano inevitabili posizioni plurali e incontenibili, soprattutto la realtà cattolica in Italia.
Come si è detto, queste forze non potevano essere annullate o escluse da un progetto di governo realizzabile; ecco quindi l’altra gamba della prospettiva democratica e non solo socialista. Questa si presentava anche come una riaffermazione del compromesso raggiunto nella stesura e nell’approvazione della Costituzione, una ripresa del progetto togliattiano e la rivendicazione di un percorso indipendente, originale e autonomo verso il socialismo.
Intraprendere questa strada democratica, almeno si sperava, non significava abbandonare il cammino verso una società futura diversa, comunista, che però non poteva essere il socialismo realizzato fino a quel momento. Questo percorso indipendente fu battezzato “eurocomunismo”, “terza via” e infine “terza fase”.
Ma qual era il contenuto concreto di questo progetto e come si differenziava sia dal socialismo reale che dalla socialdemocrazia? Questo punto cardine rimase essenzialmente difficile da definire.
La presenza dell’iniziativa privata, della proprietà privata e del mercato insieme al coinvolgimento dello Stato nella gestione dell’economia sembrava infatti delineare una prospettiva socialdemocratica classica e riflettere semplicemente la realtà di fatto della gestione delle economie più avanzate dell’Europa occidentale.
È difficile scorgere elementi più peculiari che ci permettano almeno di indicare le caratteristiche concrete di una terza via, soprattutto di mostrare quegli elementi di discontinuità qualitativa che permetterebbero di configurare una forma veramente diversa di socialismo (o comunismo) di produzione.
Anche a prescindere dalle difficoltà oggettive nel delineare concretamente un’alternativa di lungo periodo, c’erano altri due problemi fondamentali legati alla strategia che volevamo intraprendere:
1) la sopravvalutazione del versante democristiano del progetto di “compromesso storico”, giustificata anche nella figura di Moro, il più attento a questa strategia;
2) l’idea, rivelatasi assolutamente utopica, che fosse possibile uscire dalla logica bipolare di Yalta e che bastasse prendere le distanze dall’URSS perché gli Stati Uniti accettassero un Partito Comunista al governo. La morte “provvidenziale” di Moro rimise tutto al suo posto.
Come è noto, il progetto non andò bene all’Est e lo stesso Berlinguer credette di essere stato vittima di un attentato del KGB in Bulgaria, al quale sopravvisse miracolosamente.
La scomparsa di Moro, unico sostegno possibile e credibile da parte della DC per proseguire su questa strada, segnò la fine del compromesso storico e l’avvento dell’isolamento e della progressiva atrofia del PCI.
Inizia così quell’involuzione conservatrice (controrivoluzionaria) che arriverà poi alla svolta neoliberista degli anni Ottanta e Novanta, che porterà gli eredi del PCI ad attuare una politica di smantellamento di molte delle conquiste sociali ottenute in decenni di lotte.
Tuttavia, anche in questo caso non si può sottovalutare il peso della crisi del modello sovietico. La crisi polacca, la caduta del Muro di Berlino, l’implosione dell’Unione Sovietica furono salutate come una vera e propria “liberazione” da un gruppo di militanti.
Anche rivedendo i documentari dell’epoca, le testimonianze rivelano la vergogna di molti rispetto ai Paesi del socialismo reale. Il passaggio al PDS è il culmine di questo processo di vera e propria confusione, di disagio ovviamente aggravato da un decennio di emarginazione e di sconfitte subite durante il quinquennio.
La crisi del PCI sembra quindi essere nata in un contesto più generale di forte rallentamento del progetto di società comunista in alternativa al capitalismo ed è dovuta a problemi storici e teorici reali che la direzione del partito non ha inventato.
Se da un lato credo che sia stata riconosciuta una reale criticità storica, dall’altro mi sembra che le soluzioni alternative proposte non siano state efficaci. Questo implicava inevitabilmente l’incapacità di formulare una struttura sociale alternativa, una volta ritenuto fallito quello sovietico (o di formulare una corretta analisi delle sue criticità e un piano di correzione).
Mi sembra che la mancanza di analisi e di prospettiva strutturale abbia spinto la leadership a proporre strategie basate sulla “riforma morale” e sull’“austerità” che rischiavano di essere illusorie, nel senso che non riuscivano a capire che certi processi degenerativi della morale pubblica sono legati alle dinamiche di fondo del modo di produzione capitalistico.
Il binomio morale/austerità potrebbe forse essere una misura tattica efficace per coinvolgere quella fascia di cristiani e democratici estremamente sensibili a questi temi, anche in contrasto con altri settori della democrazia cristiana che potrebbero essere stigmatizzati come corrotti e degenerati.
Onestà ed etica del lavoro potrebbero rappresentare un collante per il fronte della sinistra cattolica onesta e democratica. Tuttavia, in assenza di una strategia concreta per trasformare il nesso struttura/sovrastruttura, il rischio era di agire solo a livello sovrastrutturale e quindi di essere in qualche modo legittimamente accusati di moralismo, o peggio, da alcuni, di consociativismo per il “bene della società”. Giustificando inoltre un minor livello di conflitto e importanti concessioni fatte in nome di questi principi.
Il cosiddetto secondo Berlinguer, nonostante la consapevolezza dei limiti fondamentali della strategia del compromesso storico, mi sembra abbia avuto ancora meno risposte del primo alla fase di transizione storica o di cambiamento strutturale e abbia finito per mantenere un dialogo poco costruttivo con i movimenti, il femminismo, l’ecologia, rendendosi conto dell’inadeguatezza della strumentazione tradizionale, ma al tempo stesso mancando di un’analisi oggettiva dei processi e finendo quindi per navigare senza una meta chiara.
Dopo di lui, con minore capacità e sensibilità, le cose non hanno fatto che peggiorare, fino al disastro neoliberista in nome del governativismo fine a se stesso.
La proclamazione dei valori borghesi come assoluti nascondeva implicitamente l’incapacità di pensare il presente sovrastrutturale come un momento della dinamica generale di struttura e sovrastruttura e quindi di avere il senso dei processi oggettivi e di inserirsi in essi, anziché inseguirli una volta che si sono manifestati.
La rigidità e l’ossificazione del marxismo occidentale hanno certamente contribuito al fraintendimento che la teoria fosse del tutto inadeguata a comprendere il presente. Questa ortodossia, tuttavia, non è stata sostituita da un’alternativa teorica in grado di affrontare i problemi da affrontare. Anzi, più che una critica, c’è stato un abbandono acritico. A mio avviso, questo è stato un limite teorico dell’impresa.
È noto che le scelte riformiste del PCI sono state criticate dalla sinistra come consociative e come tradimento della prospettiva rivoluzionaria della classe operaia, almeno a partire dagli anni Sessanta e poi sempre più negli anni Settanta, da vari gruppi e fazioni, alcuni dei quali hanno optato per la lotta armata.
La scelta del PCI di ridurre il peso del fattore “operaio” e le vacillazioni rivoluzionarie nascevano dal processo storico in atto; se si coglieva il cambiamento, il limite era quello di non trovare alternative coerenti e strutturate.
La nuova sinistra, l’operaismo, ha visto questa tattica come una sorta di tradimento e ha radicalizzato la posizione operaia, forse capendo ancora meno dove si stava dirigendo il neocapitalismo.
L’incapacità di coinvolgere le masse nei loro piani mi sembra indicare che anche la comprensione della questione dei soggetti era insufficiente; anche le prospettive di trasformazione sembravano tutt’altro che chiare. Al di là della questione dei diversi metodi di lotta e della loro legittimità, mi sembra che, bene o male, tutti sentissero che stavano avvenendo trasformazioni epocali, ma che nessuno fosse in grado di trovare una risposta adeguata su come agire.
Ritornando al filo teorico, la questione fondamentale non era più, a mio avviso, se il marxismo-leninismo fosse giusto o sbagliato; si trattava piuttosto di comprendere che eravamo passati a una nuova fase del modo di produzione capitalistico; Quella teoria, o meglio la sua inevitabile semplificazione ad uso politico, non ha saputo comprendere questo “passaggio” e quindi influenzarlo.
Le questioni centrali erano (e continuano ad essere): 1) come nel declino del capitalismo viene riconfigurata la tradizionale nozione di classe operaia come soggetto antagonista privilegiato (questione dei soggetti storici); 2) come si può pensare all’autogoverno razionale di una società non capitalista; Si tratta di una ricostruzione critica e non di una semplice Damnatio memoriae dell’esperienza tentata in Unione Sovietica (questione della transizione e della società futura). Senza un soggetto e senza una prospettiva trasformativa a lungo termine, qualsiasi progetto politico finisce per avere le gambe corte.
Negli anni ’70, questa dinamica reale corrispondeva naturalmente a un dibattito teorico significativo e a una pratica politica complessa. Senza poter commentare la seconda, credo si possa mostrare come la prima fosse stata anticipata sia nelle sue possibili linee di sviluppo che nei suoi esiti da un marxista che spesso non veniva nemmeno considerato tale. Questo è Italo Calvino, di cui convinse fase in cui hanno smesso di essere marxisti.
Se da un lato metteva il dito sulla ferita dell’evoluzione del capitalismo e del modo in cui esso ridefiniva le questioni storiche, dall’altro vedeva nella politica del PCI la futura “nuova sinistra” che avrebbe preso i suoi primi passi in quegli anni. L’articolo in cui diede forma a queste idee lo portò al giudizio che non sarebbe mai tornato, antitesi del regime operaio rispetto al regime capitalista.
Vediamo brevemente i tratti più salienti della sua opinione.
3. Italo Calvino e l’antitesi operaia
Nelle sue riflessioni fino alla metà degli anni Sessanta[7], Calvino non aveva una risposta generica su chi fosse il soggetto dell’emancipazione sociale: non nell’essere umano in generale, ma nella dialettica storica che si muove in virtù dei contrasti data (la tesi) nella forma conflittuale di un’antitesi. Ma anche questa opposizione non la riduceva ad uno schematismo astratto; Piuttosto, per Calvino si trattava di un mondo reale, fatto di dinamiche storiche e di rapporti di potere ben definiti il cui protagonista non era l’operaio, frutto del cambio di epoca:
«L’operaio è entrato nella storia delle idee come la personificazione dell’antitesi; cioè come obiettivo estremo della disumanizzazione del sistema industriale e allo stesso tempo – potenzialmente o già in atto – soggetto estremo della liberazione o riumanizzazione del sistema”[8].
Questa premessa potrebbe essere declinata da due diverse prospettive:
«1) come motore di una rivoluzione totale, anche o soprattutto interna all’individuo… 2) come incarnazione e verità di tutti i valori positivi (cognitivi, morali, estetici, ecc.) espressi e abbandonati da le precedenti classi dominanti, e in particolare la borghesia, cioè classe ereditaria e depositaria di tutto ciò, possono essere salvate dal declino storico»[9].
In questo rapporto, le tendenze culturali degli anni Sessanta sembravano divise tra gli analizzatori scientifici di questo processo (non necessariamente interessati alla sua trasformazione) e le posizioni di rottura (che non necessariamente riconoscevano le tracce di progresso nella situazione attuale). confronto con il passato).
In questa dicotomia, di cui Calvino considerò le conseguenze nella sua produzione letteraria, la funzione di antitesi della classe operaia sembrava perdere la sua rilevanza storica, così come l’idea di un senso della storia in generale sembrava perdere il suo significato.
Ciò non fu il risultato di generici atteggiamenti culturali, ma il risultato di una dinamica oggettiva di cui Calvino cerca di dare un’immagine, della “struttura” che nel dibattito dell’epoca veniva designata con il termine “neocapitalismo” e dei contenuti sociali della sua metafora del “labirinto” emersa nella sua riflessione di quegli anni (elaborata in un dialogo diretto con Cases, Solmi, Fortini, Panzieri, Agazzi, Eco, Bobbio, Rossanda e tanti altri eminenti intellettuali dell’epoca). Le sue caratteristiche fondamentali erano:
A) La subordinazione dell’uomo alla macchina… la classe operaia è sempre più ridotta a semplice ingranaggio del sistema e la sua possibilità di costituire un’antitesi è sempre più lontana… [Anche se il sistema è capovolto] la vita dell’uomo l’operaio in quanto lavoratore non può cambiare molto… A ciò si può associare, come correlato ottimistico, l’utopia tecnologica dell’automazione totale, secondo la quale la classe operaia è destinata a estinguersi, o almeno a diventare un’entità insignificante nel mondo. il mondo. in termini di peso numerico e come impatto storico.
B) Una volta fuori dalla fabbrica, l’operaio è considerato un consumatore, costretto a soddisfare bisogni artificiali che lo allontanano sempre più dalla realizzazione di sé… La “cultura di massa” è un’uniforme marmellata gelatinosa che il sistema emette per inglobare gli antagonisti classi senza più distinzione tra dominatori e dominati…
C) Nella società opulenta, il futuro della classe operaia sembra essere caratterizzato – come negli Stati Uniti – da una forza sindacale molto efficace in termini di potere economico rivendicativo, ma dimentica di proporre cambiamenti strutturali minimi… la classe operaia partecipa pienamente al sistema, la sua antitesi diventa un’antitesi interna, la sua pressione rivendicativa un elemento necessario della dinamica produttiva…
D) La vera vittima e l’unica antitesi possibile continua ad essere il mondo preindustriale dei contadini poveri e degli arretrati… lo squilibrio globale, invece di diminuire, tende ad accentuarsi… Questo squilibrio… sta diventando il mondo problema per eccellenza…
E) L’avvento dell’era atomica, con il conseguente rischio di distruzione generale… segna un cambiamento sostanziale. Se la disumanizzazione del sistema culmina con la prospettiva atomica, le ragioni antitetiche dell’operaio impallidiscono e si confondono con quelle generali dell’essere umano… solo una rivoluzione generale, una palingenesi umana… può essere all’altezza di tale alternativa” [10].
Tutto ciò metteva in discussione non solo il ruolo di antitesi della classe operaia, ma anche l’idea stessa di progresso, sia nella concezione positivista lineare dell’Illuminismo, sia in quella più complessa e articolata dello storicismo dialettico marxista:
Ciò che viene messa in discussione è l’idea di una storia che, pur con tutte le sue contraddizioni, sia capace di tracciare un chiaro disegno di progresso (non solo quello lineare di tipo illuminista o positivista, ma anche quello più aspro e spinoso di tipo dialettico lo storicismo si è proposto di poter sempre rintracciare), in cui l’antitesi operativa si inserisce come catalizzatore di potenzialità positive[11].
Dopo un’analisi approfondita della specifica situazione italiana, che Calvino ometterà dalla versione contenuta in Una pietra sopra per il suo carattere troppo sociologico e superficiale, Calvino ritorna sul tema del rapporto tra soggettività e processo storico, individuando due possibili atteggiamenti verso la situazione così come l’aveva ricostruita; Da un lato, la classe operaia si presenta come l’unico difensore della necessità di razionalità assoluta:
«Per l’operaio la vittoria totale della scienza e la vittoria totale dell’industrializzazione coincidono con la vittoria della classe. Una linea… destinata a forzare questo processo verso l’utilizzo di tutte le forze umane e naturali per scopi umani»[12].
La seconda opzione è una pura e semplice negazione. Qualsiasi forma di collaborazione allo sviluppo razionale delle forze produttive in chiave capitalistica intrappola il lavoratore; Le conquiste dei lavoratori non sono altro che concessioni organiche del sistema da tempo progettate, previste e concesse ad hoc.
In sintesi, Calvino sostiene che nel sistema di produzione riconfigurato neocapitalista ci sono forze contrastanti: la prima è razionalizzatrice, la seconda è catastrofica e potenzialmente autodistruttiva.
Affinché la prima non degeneri nella seconda, è necessario l’impulso razionalizzatore della classe operaia. Solo allora produrrà storia. È la via che individua per salvare lo storicismo dialettico di fronte alla sfida della realtà che sembra imbracciare le sue armi, o almeno parte di esse, una realtà fatta di cose umano-sociali (reificazione), cose prodotte storicamente dall’uomo in cui l’agire umano deve farsi posto tra la sua azione autonoma (il famoso labirintico “mare dell’oggettività”).
In questo modo pensava di poter mantenere una funzione progressiva del soggetto operaio rivoluzionario al di fuori di un’astratta illusione di cambiamento totale, ma piuttosto come momento di un processo i cui tratti caratteristici erano oggettivi, trascendentali e non modificabili a piacimento. Propone quindi un forte determinismo anti-praxis, con margini d’azione limitati all’azione umana organizzata (la filosofia della praxis era stata, invece, la sua fede politico-filosofica dopo la prima guerra mondiale).
Calvino si lamentò in diverse occasioni del fatto che i suoi testi erano stati disprezzati da amici e nemici. Coloro che gli fornirono feedback, soprattutto Rossanda e Bobbio, lo criticarono e videro nella sua posizione i precursori di un atteggiamento riformista, in definitiva collaborativo piuttosto che conflittuale nei confronti del capitalismo.
Calvino non negò una possibile deriva “di destra” della sua proposta, al punto che in una lettera di risposta a Bobbio, probabilmente un po’ infastidito non tanto dalle critiche ma dalla sua reale attualità, dichiarò provocatoriamente di sì[13] Il suo non era riformismo perché il capitalismo non era razionale in sé senza la spinta decisiva della classe operaia e della sua razionalità[14].
Queste tremanti difese sembrano il preludio a un’abdicazione e a un silenzio che di fatto annunciavano: da un lato, che la nuova sinistra si rafforzava proprio da quegli elementi che per Calvino conducevano a vicoli ciechi.
Un sistema di pensiero che non è direttamente reazionario, ma antiilluminista, un rifiuto di una razionalità oggettiva nelle cose, per quanto contraddittorie possano essere.
Dall’altro, il partito comunista e la sua tradizione che, di fronte al declino dei lavoratori, prese progressivamente le distanze da quel soggetto verso una leadership politica consociativa che addomesticava, invece di potenziare, la capacità antagonista della classe operaia. Al di là delle contingenze, però, il ragionamento di Calvino era filosofico e teorizzava essenzialmente la scomparsa del soggetto e la totale automazione dei processi sociali.
L’incapacità di trovare una nuova sintesi efficace di fronte alle innovazioni presentate dal neocapitalismo porterà Calvino a non esprimersi esplicitamente circa la sua filosofia della storia; Da scritti, opere narrative e lettere è possibile però individuare una struttura e mostrare tratti di discontinuità con la fase pre-1964, ma anche importanti elementi di continuità, tema che non può essere affrontato in questa sede.
4. Conclusioni
Le previsioni di Calvino sono di magra consolazione di fronte all’attuale incapacità di sciogliere i due nodi gordiani che da allora hanno bloccato disegni più organici di prospettive emancipatorie: soggetti storici, forme di emancipazione.
Le questioni critiche che allora sorsero e non furono risolte dai diversi marxismi che, pur tentando di trovare risposte, portarono il PCI ad abdicare totalmente alla sua funzione di partito di classe fino a diventare l’alfiere del partito della finanza internazionale oligarchie. Un partito ormai con posizioni del tutto estranee ad una prospettiva antagonista ancorata alla teoria generale del materialismo storico.
Credo che chi voglia riprendere il filo del discorso debba partire dal tentativo di sciogliere quei nodi, con una concezione più adeguata dei soggetti storici – che non si riducano alla classe operaia ma che non rifiutino il concetto funzionale di classe come definito da esso Marx[15] – e la trasformazione storica; dalla comprensione delle tendenze trascendentali dello sviluppo del modo di produzione capitalistico come premessa per una possibile transizione verso una società più razionale.
Perdere tale concezione dei soggetti storici e dell’idea delle dinamiche strutturali del modo di produzione capitalistico come momenti di transizione inevitabilmente necessari, credo, ci pone fuori da qualsiasi approccio che vogliamo in qualche modo definire marxista.
Note
1 Per quanto riguarda la storia del marxismo, l’edizione ancora ineguagliata per qualità e profondità di analisi e di ricostruzione è quella di Einaudi, in cinque volumi a cura di E. Hobsbawm (1978-82). Gli altri due studi classici sono il volume Feltrinelli curato da Zanardo (1974) e quello curato da Vranicki (1971) per Editori Riuniti. Più recentemente, per quanto riguarda specificamente il marxismo italiano, sono apparsi i volumi di Favilli (1996), Corradi (2005) e Bellofiore (2007) e un nuovo tentativo di Storia del marxismo curato da Petrucciani (2015).
2 Cfr. Fineschi (2008), Introduzione.
3 Questa prima parte riprende e modifica un articolo apparso l’8 gennaio 2021 su “La città Futuro” in occasione del centenario del PCI con il titolo 100 anni del PCI. Riflessioni aperte.
4 Per una panoramica di queste trasformazioni, la tabella offerta dal volume 3 della Storia repubblicana di Einaudi mi sembra ancora attuale e suggestiva per l’epoca in cui è apparsa, in particolare i contributi di De Felice (1996), Giannola (1996),. Paci (1996), Pizzorno (1997) e Tranfaglia (1997).
5 Per quanto riguarda la nozione di “capitalismo crepuscolare” faccio riferimento a Fineschi (2020) e (2022).
6 Cfr. Pons (2006) e Liguori (2014). Liguori, insieme a Ciofi, ha curato una bella antologia degli scritti di Berlinguer (2014). Ciò che segue ovviamente differisce in diversi punti dalla sua interpretazione. Questo secondo paragrafo riprende e modifica un articolo apparso su “Cumpanis” nel dicembre 2020 dal titolo Schema di riflessione sul PCI e la sua crisi.
7 Questo terzo paragrafo anticipa alcune tesi di una mia monografia su “Calvino il Filosofo” di prossima pubblicazione.
8 Calvino (1964, 128).
9Ibidem, 128-129.
10 Ibidem, 132-135.
11 Calvino (1964, 135).
12Ibidem, 137.
13 Cfr. lettera a Bobbio del 28 aprile 1964: «Caro Bobbio, sì, sono un riformista. O più precisamente: credo che oggi (e forse solo oggi) si possa cominciare a pensare ad un riformismo che non cada nella trappola tante volte denunciata dalle polemiche rivoluzionarie, cioè l’assorbimento della classe dominante nel sistema. Per salvarsi dalla trappola, questo riformismo deve poter contare sulla forza del movimento operaio internazionale, cioè su quella forza che da un momento all’altro potrebbe essere gettata nel gioco “catastrofico”, la pressione rivoluzionaria delle masse. e la strategia degli stati guidati dalla rivoluzione. In altre parole, il riformismo avrà successo solo se sarà guidato dai comunisti. Non ne sono ancora capaci: costretti a muoversi in quella direzione, lo fanno goffamente; e d’altra parte il problema non è solo la scelta di una linea ma garantire che la scelta di una linea non implichi la perdita di tutto il resto. Calvino (2000, 807).
14 Cfr. lettera a Rossanda del 6 luglio 1964: «Il finalismo socialista oggettivo, legato alla naturalità dello sviluppo economico al massimo livello: il pericolo di prendere alla lettera questa prospettiva nei miei scritti è – credo – continuamente corretto dall’elemento direttivo volontario dell’“antitesi operaia”…, ma questo probabilmente è il mio pericolo (sono o no un “deviazionista di destra”?) e non sarà mai ricordato abbastanza, e in questo senso forse sei d’accordo: non ho detto abbastanza che il sistema è solo una razionalità apparente e mistificata e che va sfruttata al massimo. Tuttavia non si può far esplodere nulla se non si ha un quadro chiaro delle conseguenze dell’esplosione, a meno che non si ipotizzi l’esplosione come fine. (Calvino 2000, 833).
15 Ho tentato alcune riflessioni in questo senso in Fineschi (2008, cap. 3).
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Fonte: Dialectica&Filosofia, Nuova Serie, XVIII, 2024 Roberto Fineschi L’onda lunga di crisi del marxismo (tra prassi e teoria) Ita…