Brexit, accordo raggiunto in extremis: cosa prevede e chi ne esce vincitore

Brexit. Unione europea e Gran Bretagna sono riusciti ad evitare in extremis un “no deal” dal 31 dicembre a mezzanotte, data oltre la quale sarebbero state applicate, in assenza di accordo, le tariffe della Wto (Organizzazione mondiale del commercio) sugli scambi tra l’Unione e Uk.

di Adriano Manna

Dopo tre anni di negoziato sono stati superati gli ultimi fondamentali scogli, di cui il primo era rappresentato soprattutto dal rispetto delle regole di concorrenza da parte della Gran Bretagna, che voleva continuare ad approfittare del mercato unico senza sottostare ai vincoli che questo impone ai propri membri.

Altro scoglio era rappresentato dall’organo chiamato a giudicare le controversie, con L’Unione che pretendeva che fosse la Corte di Giustizia europea a giudicare. Su questo punto, stando alle dichiarazioni del governo britannico, dovrebbe esser passata la linea di Londra, che chiedeva che il Regno Unito non fosse più soggetto ad alcun tipo di giurisdizione della Corte, attraverso l’istituzione di un arbitrato indipendente.

Ultima controversia, dallo scarso peso sostanziale ma dal forte valore simbolico, era quella relativa alla pesca. Su questo punto l’accordo raggiunto prevede che le quote di pesce che i pescatori europei potranno pescare in acque britanniche sarà ridotta del 25 per cento nei prossimi cinque anni e mezzo (la controparte britannica aveva chiesto una riduzione di molto maggiore).

La sostanza dell’accordo 

La grande vittoria britannica è senza dubbio rappresentata dall’aver ottenuto l’accesso al mercato unico europeo senza tariffe (sul discorso quote sono giunte invece informazioni contrastanti in queste ore, si aspetta quindi il testo definitivo per una valutazione più esauriente), con il solo obbligo per la parte britannica di evitare distorsioni alla concorrenza.

Continuerà, seppur con intensità minore, la collaborazione in tema di sicurezza, anche se l’UK uscirà da alcuni programmi sul piano civile come quello di interscambio universitario dell’Erasmus.

Fine della libera circolazione per le persone, con la necessità di un visto per i cittadini europei non qualificati che volessero recarsi nel Regno Unito per lavoro (ma è prevista una corsia preferenziale per gli europei con titoli di studio altamente qualificanti, specialmente nelle materie scientifiche). Al contrario sarà ancora possibile recarsi in UK per turismo, ma occorrerà il passaporto ed il periodo di soggiorno non potrà superare i tre mesi. Stesse condizioni sono grosso modo previste per i cittadini britannici che volessero recarsi nel Vecchio Continente.

Al netto della lunga telenovela sulla pesca, argomento del tutto marginale per una economia come quella inglese che ha in questo settore una percentuale veramente irrisoria della propria attività produttiva, ben più rilevante risulta la partita legata ai servizi finanziari: la City di Londra, il più importante centro finanziario del Regno Unito, dovrà lasciare il mercato unico dei servizi il 31 dicembre. Le regole di accesso ai rispettivi mercati finanziari saranno decise unilateralmente dal Regno Unito ed Unione europea, dando vita molto probabilmente ad un sistema meno stabile e molto più frammentato di quello odierno, evidentemente a tutto svantaggio del centro finanziario londinese.

C’è un vincitore?

Entrambe le parti annunciano di aver raggiunto un accordo reciprocamente conveniente, ma questo è vero solo in parte: per l’Unione europea questo accordo rappresenta politicamente un’arma a doppio taglio, poiché se da una parte si disegna un modello di collaborazione con cui si possono aprire nuove partnership commerciali con paesi “amici” (quest’accordo del resto ricalca per alcuni aspetti quello recentemente sottoscritto con il Canada), allo stesso tempo sancisce la possibilità per qualsiasi stato membro di immaginare un’uscita dall’istituzione comunitaria meno traumatica di quello che si poteva immaginare. Insomma, anche fuori dall’Ue sembrerebbe esserci vita.

Da parte britannica la grande sconfitta è proprio la City, quella che non a caso più si era spesa per una permanenza del Regno Unito nell’Unione. Rimane da capire come l’economia britannica, che aveva fatto proprio dell’esplosione del settore dei servizi nella capitale londinese il vero motore di traino di tutta l’economia nazionale, pensi di non avere pesanti ripercussioni da questa situazione. Del resto il successo di Londra era rappresentato proprio dal fatto di essere la porta d’ingresso dei capitali finanziari di mezzo mondo per il mercato unico europeo, funzione che da oggi non potrà più assolvere, o almeno non in maniera così importante.