Il caso Saviano: la cultura politica dell’asilo e del manganello

La Rai ha deciso di cancellare il programma di Roberto Saviano, Insider, a puntate già registrate e messa in onda già prevista. Una decisione resa ufficiale dall’amministratore delegato della Rai, Roberto Sergio, in un’intervista al Messaggero di Mario Ajello. “Saviano non è in palinsesto” ha detto a domanda diretta, reiterando la risposta a mo di “no comment” quando l’intervistatore l’ha incalzato, chiedendo se fosse stato applicato il codice Facci”. Saviano in seguito all’intervista ha dichiarato di non essere stato contattato dall’azienda.

di Matteo Pascoletti – Valigia Blu

Il riferimento al “codice Facci” è in realtà al codice etico della Rai, che tra le altre cose disciplina l’uso dei profili digitali, sia aziendali che dei collaboratori. Sul programma di Saviano erano state sollevate nei giorni scorsi polemiche da parte di alcuni esponenti della maggioranza. Il 20 luglio, infatti, lo scrittore aveva replicato al ministro dei Trasporti Matteo Salvini, che su Twitter aveva ironizzato sulla candidatura in Germania di Carola Rackete dandole della “speronatrice”. L’ex capitana della Sea Watch aveva a suo tempo denunciato per diffamazione lo stesso Salvini (per commenti dello stesso tenore), che ha evitato il processo grazie al voto del Senato.

Saviano ha ricordato l’episodio su Twitter, usando per l’occasione l’espressione (mutuata da Gaetano Salvemini) “ministro della Mala Vita”. L’espressione, già usata dallo scrittore nel 2018 all’indirizzo di Salvini, è stata oggetto di una querela che vede Saviano attualmente a processo per diffamazione (Salvini in ogni caso ha dichiarato di volerlo querelare di nuovo). In ogni caso, dal tweet della scorsa settimana sono partiti i richiami dei membri della Commissione sull’eventualità di far condurre allo scrittore un programma per il servizio pubblico. Ma non occorre sperticarsi in chissà quali dietrologie per capire che la questione è pretestuosa: sono gli esponenti della stessa maggioranza a dichiarare nero su bianco i reali motivi.

Tra agenzie e testate giornalistiche sono rimbalzate per esempio le parole di Lucio Malan, capogruppo di Fratelli d’Italia al Senato: “Basta con una Rai che fa ‘figli e figliastri’, dove si dice ‘no’ a Filippo Facci e ‘sí’ a Roberto Saviano, che non perde occasione per insultare e infangare le istituzioni di questa Nazione. È necessario quindi riflettere sull’opportunità di affidare a Saviano uno spazio in Rai perché le sue parole e le sue dichiarazioni sono incompatibili con il servizio pubblico”.

Parole che fanno il paio con quelle di Elena Maccanti, deputata della Lega e membro della Commissione vigilanza Rai. “Saviano insulta, infanga un ministro della Repubblica italiana. Le offese e le volgarità di Saviano sono intollerabili. E ancora più discutibile lo è la sua doppia morale, considerando che ha lavorato con Mondadori di Berlusconi e ora nella tv di Stato con il centrodestra. Dopo che la Rai ha deciso di tagliare il programma di Facci, credo sia opportuno chiedersi se Saviano sia compatibile con un’emittente pubblica”.

La cancellazione del programma di Saviano ci conferma due capisaldi della cultura politica della destra radicale al potere: l’asilo e il manganello. Una combinazione pericolosa proprio perché ridicola e impunita. Si fa davvero fatica a considerare psicologicamente adulta e istituzionalmente democratica una classe politica che deve attuare la rappresaglia culturale, messa nera su bianco, secondo la logica del siccome ci è toccato cancellare il programma di Facci, allora pareggiamo i conti con Saviano.

I due casi non hanno nulla in comune: dover parlare di entrambi in uno stesso articolo è una sconfitta intellettuale e morale. Solo una mentalità rancorosa che deve usare il potere per pareggiare i torti che ritiene di aver subito può pensare di applicare lo stesso codice etico per il cinico victim blaming di Facci e la critica politica di Saviano. Solo una mentalità da cortigiano che fa coincidere i limiti del proprio mondo con quelli del Palazzo in cui presta servizio può prestarsi a un simile giochino senza provare vergogna. Solo una mentalità che è assuefatta alle prime due, o ne è intimorita, può tollerarle.

Non esiste servizio pubblico, concetto già compromesso in partenza dalla prassi della lottizzazione e dai cencelliani manuali elevati a regola d’arte. Non esiste responsabilità per il proprio operato, poiché si risponde non alla cittadinanza nella sua totalità, ma solo a quella parte che ci sostiene anche per colpire gli avversari. Non esistono sedi istituzionali, se non per regolare i conti con i propri avversari e le proprie clientele. Perciò le regole che valgono sono solo quelle d’ingaggio, e in base a questa perversa logica un codice etico diventa un’arma per censurare dopo l’attacco che si ritiene di aver subito. Come se il “caso Facci” non fosse prima di tutto responsabilità di Facci stesso, e della cloaca in cui intinge la penna per trovare l’inchiostro.

Insultare una donna che denuncia uno stupro, caso che chiama indirettamente in causa anche il presidente del Senato (padre di uno dei due accusati, per un episodio avvenuto nella dimora di famiglia), a nessun titolo può essere comparabile con la critica a un politico – anche nei suoi eventuali eccessi. L’unica finestra mentale che può affacciarsi su un’idea del genere è per l’appunto l’idea di società come insieme di bande in conflitto: uno dei nostri, uno dei loro – mica possiamo sembrare deboli. Come sintetizzato dallo stesso Saviano al Corriere “Facci ha attaccato una persona inerme per difendere il potere. Io ho attaccato il potere”.

Non solo: come già detto, il tweet di Saviano cui ci si è appellati per chiamare in causa il codice etico conteneva lo stesso messaggio per cui lo scrittore è sotto processo. Saviano è attualmente a processo anche per l’accusa di diffamazione verso la premier Giorgia Meloni, per una denuncia presentata nel 2020, mentre un’altra causa (civile, anch’essa per un episodio del 2018) presentata dal ministro Sangiuliano è stata archiviata. A voler prestare il fianco al discorso del codice etico, eventuali problemi sussistevano da molto prima che si iniziasse a registrare il programma.

La Rai, insomma, avrebbe potuto in origine decidere di non iniziare nessuna collaborazione con il giornalista, a torto o a ragione. Questo non è avvenuto, e dunque è ancora più palese l’opportunismo rancoroso della rappresaglia culturale. Fermo restando, e questo è un punto che va sottolineato, come i casi di querele temerarie (o SLAPP, dall’acronomo inglese che indica “cause strategiche contro la partecipazione pubblica”) non dovrebbero diventare un motivo per interrompere collaborazioni professionali, o non farle iniziare proprio. Perché se ne rafforzerebbe l’efficacia, rendendo l’ossequio al potere un criterio di “merito”.

Rimane davvero difficile pensare che Roberto Sergio vada a spiegare cosa sono l’indipendenza di giudizio e la libertà di espressione (“nemmeno io so per chi voto, essendo un democratico-cristiano orfano dello Scudo Crociato sulla scheda”) a quelle associazioni internazionali che già si sono mosse a denunciare il caso di censura. Tra queste, Pen International e l’International Federation of Journalists.

Questi attestati di solidarietà, che sono anche denunce di un clima problematico, nascono dalla constatazione dell’evidente attrito tra regole basilari e prassi meschine, non da chissà quale vetta morale o intellettuale. Dovrebbero far suonare qualche campanello d’allarme, anche solo di facciata, in chi di solito difende la libertà di espressione all’aumentare dei chilometri di distanza dalla propria banca. Se uno studente di un campus americano protesta contro un professore allora si monta un caso nazionale, poiché tanto nessuno telefonerà mai in redazione per protestare contro la nostra elegante opinione. Se uno scrittore vede cancellato un programma, ecco che in molti prende vita un tormentato monologo interiore dal titolo Così è (se conviene). C’è chi, insomma, alla coscienza antepone le rate.

Vale per gli intellettuali il discorso della mitica scena del film Fortapasc sui “giornalisti”: ci sono intellettuali “impiegati”, che sanno quando stare nei ranghi, e gli “intellettuali-intellettuali”, che portano le “rotture ‘e cazz’”. A prescindere da qualunque connotazione politica, Saviano è percepito come come membro di quest’ultima categoria; poterne chiudere in modo così arbitrario e deliberato il programma significa dare un esempio di cosa aspetta a chi può incassare meno solidarietà, ottenere meno attenzione dalla stampa. Politicizzarlo agli occhi dell’opinione pubblica a mo di stigma (“comunistello”, “sinistro”, e così via) serve a dissimulare la censura: si sta colpendo un nemico, non un diritto. E intanto, a prescindere dall’esito dell’operazione, passa il messaggio a chi non vuole imparare a recitare secondo i nuovi soggetti che la destra radicale ha già iniziato a distribuire.