Il racconto polarizzato del G8 di Genova

Lo dico subito: a Genova non ci sono stato. Sicuramente ero troppo piccolo (14 anni) e per nulla politicizzato. E in realtà, anche fossi stato più grande, temo, avrei avuto paura.

di Nicola Cucchi

Mi sarei forse fatto spaventare dalla retorica mediatica sulle violenze previste per quella manifestazione. D’altro canto mi sono confrontato molte volte con persone che ci sono state, o che ci volevano andare a tutti i costi ma non hanno potuto. Il ricordo del trauma subito spesso si unisce all’esaltazione di aver partecipato ad un evento storico, un appuntamento dove contava innanzitutto esserci.

Un’amica pochi giorni fa mi raccontava che a 16 anni con due coetanee decise di partire da Roma e andare a Genova per la manifestazione contro il G8. In più occasioni le tre ragazze rischiarono di essere picchiate, ma alla fine per fortuna andò bene. Nonostante gli enormi rischi corsi, mi dice che lo rifarebbe senza dubbio perché in quel momento essere a Genova significava essere lì dove si stava facendo la storia.

Altre due amiche mi hanno raccontato la delusione di non essere andate per un divieto imposto dai genitori. Questi, per evitare fughe, avevano appositamente organizzato vacanze lontano dalla città ligure per evitare che le giovani figlie (di 13 e 16 anni) partecipassero ad una manifestazione che ci si aspettava pericolosa.

Infine non posso dimenticare la testimonianza che avevano dato due ragazzi di Ancona che erano stati a Genova, durante le “giornate alternative” organizzate nella mia scuola nell’anno successivo (2002). Ricordo che ci avevano raccontato delle violenze subite (dei poliziotti infiltrati e vestiti da Black Block) e in generale ci erano sembrati parecchio traumatizzati.

 

Quelli che ben-pensano: le offese a Carlo Giuliani e la repressione dei “moderati”

Dalla parte esattamente opposta c’è l’Italia che aveva identificato tutti i manifestanti come violenti. Secondo questa “parte moderata” di società italiana, spinta molto dai canali TV (anche la Rai iniziava rapidamente a berlusconizzarsi), i manifestanti si erano meritati la repressione selvaggia come reazione alle loro violenze e danneggiamenti.

Un’espressione grezza ma efficace di questo immaginario collettivo diffuso nel “ceto moderato italiano” è presente nella dichiarazione data da un consigliere comunale anconetano in occasione dell’anniversario di quattro anni fa (2017):

«Estate 2001. Ho portato le pizze tutta l’estate per aiutare i miei a pagarmi l’università e per una vacanza che avrei fatto a Settembre. Guardavo quelle immagini e dentro di me tra Carlo Giuliani con un estintore in mano e un mio coetaneo in servizio di leva parteggiavo per quest’ultimo.

Oggi nel 2017 che sono padre, se ci fosse mio figlio dentro quella campagnola gli griderei di sparare e di prendere bene la mira. Sì sono cattivo e senza cuore, ma lì c’era in ballo o la vita di uno o la vita dell’altro. Estintore contro pistola. Non mi mancherai Carlo Giuliani».

La “frase incriminata” sollevò allora una grande polemica, che coinvolse quotidiani e personalità di rilievo nazionale, semplicemente rinfocolando questo immaginario. Il consigliere comunale si affrettò a chiedere scusa, ancora prima che crescessero le proteste e persino la segreteria del suo partito (PD) lo richiamò.

Secondo me tuttavia quello che conta è capire quale cultura esprime questa presa di posizione contro un simbolo riconosciuto della ribellione di quindici anni prima, diventato suo malgrado martire di un movimento fondamentale per una generazione. A livello di visione della società e della politica, tutto gira intorno a una polarizzazione forzata tra “chi porta le pizze” e “chi ha l’estintore”.

Questa frase mi ha colpito da subito e mi è sembrata la chiave di questa “narrazione tossica”.

Il consigliere comunale divide la sua generazione in due grandi gruppi: chi quell’estate lavorava per pagarsi gli studi e le vacanze e chi perdeva tempo a protestare. Come se protestare fosse una cosa da perditempo e quindi un privilegio di pochi. Sembra dire: “mentre i ‘bravi ragazzi’ si facevano il mazzo per costruirsi un avvenire, questi violenti mettevano a soqquadro una città per il piacere di ribellarsi, perché se lo potevano permettere”.

Insomma “Ho passato l’estate a portare le pizze” è il nuovo “Chi non lavora non fa l’amore”, cantata da Celentano contro l’ondata di scioperi di fine anni Sessanta. E il problema non è più il politico in sé, il problema è quanta parte di società la pensa esattamente così. Questa frase è interessante proprio perché intercetta perfettamente un sentire comune diffuso grazie a un racconto totalmente manipolato di quei giorni e di quel movimento. Una manipolazione che si è trasformata negli anni in un’ombra su tutte le forme di protesta, riprendendo anche implicitamente il refrain falsato del Pasolini che nel ‘68 avrebbe simpatizzato per i poliziotti veri proletari, contro i manifestanti borghesi. Per questo rimando allo splendido approfondimento di Wu Ming 1 che smonta in modo magistrale questa visione, restituendoci un Pasolini perseguitato dai tutori dell’ordine.

 

Il silenzio di un’Italia spoliticizzata

La realtà è che l’Italia nell’estate 2001 è stata teatro di una strategia (internazionale) di repressione violenta di un movimento che stava proponendo un ordine politico e sociale alternativo alla globalizzazione impostasi negli anni ‘90. Così la riduzione mediatica di quel movimento a mera manifestazione di disordine e violenze ha squalificato la possibilità stessa di confliggere e proporre una società alternativa, portando la maggioranza dei cittadini – e della mia generazione in particolare – a convincersi che non vi siano opportunità diverse dallo stato di cose presenti. La sconfitta nella memoria e nel senso comune è stata la peggiore, perché ha impedito alla radice la nascita di qualsiasi forma di dissenso diffuso.

Il punto è prendere atto che questa posizione con il passare degli anni è ormai maggioritaria in una società sempre più anziana, impaurita dai cambiamenti repentini, in cui i giovani sono sempre più chiusi in un circuito di precarietà senza via d’uscita. Prenderne atto e farsi carico di dimostrare il contrario.

La realtà è che siamo una generazione che, sotto il ricatto del licenziamento – del “tutti sono sostituibili” – sta subendo un abbassamento delle condizioni di lavoro che sarebbe stato impensabile qualche decennio fa. E allo stesso tempo, molti di noi non concepiscono, quasi non sopportano, l’idea di protestare per raggiungere obiettivi comuni, per costruire un punto di vista alternativo.

Perché ciò sta avvenendo senza che buona parte dei soggetti sfruttati riescano ad esprimersi politicamente? Perché, secondo me, la lunga opera di “spoliticizzazione culturale” causata dall’espansione della logica del mercato ad ogni sfera della vita ci ha derubato dell’idea stessa di conflittualità sociale, un principio fondamentale della civiltà democratica antifascista. Se non pensi sia possibile confliggere – sia a livello sindacale, che politico – hai due strade: emigrare o accettare (in silenzio) le condizioni che il mercato pone in quel luogo. Ed è quello che stiamo facendo. Insomma il “senso comune anti-conflittuale” ha contagiato anche gli sfruttati, che non sanno più come reagire.