Lo scenario politico israeliano pare andare incontro a una riformulazione, della quale dovranno presto essere misurati, sul banco di prova delle emergenze sociali, politiche e strategiche che Israele e l’intera regione stanno attraversando, dimensione ed effetti.
di Gianmarco Pisa – Pressenza Italia
Il primo segnale è stata l’elezione, mercoledì 2 giugno, di un nuovo Presidente, alla vigilia della scadenza del mandato del Presidente uscente, Reuven Rivlin, il cui corso scadrà ufficialmente il prossimo 9 luglio. La Knesset, il parlamento israeliano, ha infatti eletto, con 87 voti su 120, Isaac Herzog nuovo Presidente dello Stato di Israele. In effetti, i partiti avevano lasciato libertà di scelta tra i candidati che si erano presentati alla Knesset, non solo Isaac Herzog, ma anche Miriam Peretz, già vincitrice del Premio Israel, uno dei principali riconoscimenti culturali del Paese, educatrice e operatrice sociale, figura circondata da grande rispetto nel Paese, una sorta di icona nazionale. Due figli caduti nel Sud Libano e a Gaza, negli scenari del conflitto di prossimità che periodicamente si tramutano in guerra e che caratterizzano il militarismo israeliano, segnato in particolare dall’occupazione della Cisgiordania e del Golan, dal blocco della Striscia di Gaza, da una continua tensione nei confronti dei Paesi vicini, a partire dal Libano e dalla Siria, Miriam Peretz è diventata, con il tempo, oratrice su questioni riguardanti Israele, il sionismo e il dolore legato alla perdita, alla sofferenza per le vite perdute. Nel 2014 fu la personalità scelta per accendere la torcia della celebrazione della Giornata della Indipendenza di Israele, che corrisponde alla giornata simbolo della «Nakba», la «catastrofe» del popolo palestinese, con la quale si compì una vera e propria pulizia etnica e la cacciata di oltre 700 mila palestinesi, dopo la guerra del 1947-1948.
Anche la figura di Isaac Herzog è, a tutti gli effetti, sebbene su altro versante dello schieramento politico, una figura nazionale per Israele. Intanto, non è passato inosservato il fatto che con la sua elezione sia stato eletto presidente, per la prima volta, una figura politica di primo piano, ma non un parlamentare. Si tratta, in ogni caso, di una figura rappresentativa dell’establishment: già deputato alla Knesset per quindici anni, a cavallo tra il 2003 e il 2018, esponente di primo piano della socialdemocrazia israeliana e leader del Labour, è stato candidato premier nel 2015 a capo dell’Unione Sionista, e ha ricoperto diversi incarichi, ministro della Diaspora tra il 2007 e il 2009, ministro del Turismo tra il 2006 e il 2007 con Ehud Olmert, e ministro del Welfare tra il 2007 e il 2011. Arriva alla carica di Capo di Stato da presidente dell’Agenzia Ebraica (l’istituzione che funge da promotrice del carattere ebraico di Israele, dello sviluppo del Paese e della promozione dell’immigrazione, dell’accoglienza e dell’inserimento degli ebrei immigrati) incarico che ha ricoperto sin dal 2018.
Non è questa elezione, dunque, a rappresentare un tratto di discontinuità istituzionale, né costituisce un fattore di rottura la riformulazione del quadro politico israeliano, cui si accennava all’inizio, che ha visto il suo primo atto, da confermare alla Knesset, lo scorso 2 giugno quando, al limite della scadenza del mandato esplorativo affidatogli dal Presidente Rivlin, Yair Lapid ha positivamente sciolto la riserva e dichiarato di essere riuscito a trovare una maggioranza in grado di sostenere quello che la stampa israeliana e la propaganda politica hanno definito un «governo del cambiamento».
L’accordo di massima si basa infatti sull’intesa di otto partiti, eterogenei e diversissimi tra di loro, che ricomprendono al loro interno forze moderate, della sinistra socialdemocratica e della sinistra sionista, come pure forze liberali, di destra e addirittura della estrema destra nazionalista: Yesh Atid, Blu-Bianco, i Laburisti, Yamina, Yisrael Beytenu, Nuova Speranza, Meretz e, per la prima volta, un partito arabo, Ra’am, di Mansour Abbas. L’accordo prevede, per rievocare il lessico politico della Prima Repubblica, una sorta di «patto della staffetta», con Naftali Bennett premier i primi due anni e Yair Lapid i successivi due.
Ciò significa che, se l’accordo sarà confermato dalla Knesset, per la prima volta da dodici anni a questa parte non sarà Benjamin Netanyahu a guidare il governo di Israele. Ma non cambierà la forte polarizzazione dello scenario e l’altrettanto forte orientamento a destra del quadro politico: «non solo non è un governo di sinistra come dice Netanyahu, ma sarà più spostato a destra di quello attuale. Non faremo ritiri e non consegneremo territori». Naftali Bennett è noto non solo per essere legato al movimento dei coloni fondamentalisti, ma anche per la sua radicale ostilità nei confronti del diritto di auto-determinazione del popolo palestinese. È l’autore del famigerato Piano Bennett (2012) che prevede la sostanziale annessione di ampia parte della Cisgiordania, la definitiva riduzione in enclavi della popolazione palestinese, la rottura di ogni collegamento tra la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, separate per evitare di esportare «la violenza, l’instabilità e i problemi» di Gaza nella Cisgiordania, e la cancellazione di ogni ipotesi di Stato palestinese nei territori occupati, sui quali Israele manterrebbe il «completo controllo di sicurezza». Nulla a che vedere coi due Stati per i due popoli, bensì lo schema tipico della destra sionista e l’eco del vasto disegno della «Grande Israele». Per di più, con un programma economico, in politica interna, ancor più marcatamente neoliberista di quello di Netanyahu. Insomma, il cammino della giustizia e della piena autodeterminazione ha ancora tanta strada dinanzi a sé.