La crisi della Linke e i dilemmi della sinistra radicale

In Germania si torna a parlare di scissione della Linke con la fuoriuscita di quella tendenza del partito che fa riferimento a Sahra Wagenknecht e che viene definita giornalisticamente come “sovranista”. La scadenza che si fa sempre più incombente è quella delle elezioni europee dell’anno prossimo che sollecita le forze in conflitto tra loro a definire delle strategie che sembrano diventare sempre più confliggenti.

di Franco Ferrari – Transform! Italia

La leadership della Linke ha annunciato la presenza nelle liste per le elezioni europee di alcune figure impegnate in vario modo al sostegno ai migranti, tra le quali Carola Rackete, nota in Italia per la sua attività di soccorso nel Mediterraneo e lo scontro con l’allora Ministro dell’Interno Salvini. Scelte che sono considerate da una parte del partito come un’ulteriore accentuazione della tendenza a configurare la Linke come espressione di una sinistra “umanitaria” insediata nei nuovi ceti medi delle grandi città, nelle fasce di lavoratori prevalentemente intellettuali e dei servizi mossi da spinte morali piuttosto che da una logica di interessi socio-economici. Non si può escludere che la leadership della Linke, in un contesto che vede declinare in modo significativo il suo radicamento di massa nella ex Germania dell’est, punti ad insediarsi in quell’elettorato che aveva sostenuto l’ascesa dei Verdi e che ora li vede applicare al governo politiche che sono in diversi casi molto lontane se non opposte a quelle di cui si erano fatti interpreti originariamente.

Si polarizzano nella Linke due diverse visioni della sinistra. Da un lato il partito che si connette e dà rappresentanza ai nuovi (o nuovissimi) movimenti sociali, spesso per loro natura oscillanti ed anche integrabili in un discorso subalterno al paradigma liberista. Dall’altro una strategia che cerca di ricostruire il consenso dei ceti popolari, dei lavoratori e delle lavoratrici più tradizionali e che si sono divaricati per una parte mantenendo il rapporto di fiducia con la socialdemocrazia (seppure sempre più tenue), dall’altro spostandosi verso l’estrema destra.

Abbiamo già visto alcune delle tesi sostenute dalla Wagenknecht che accusa le forze prevalenti a sinistra negli ultimi decenni di rivolgersi a settori di elettorato mossi da motivazioni identitarie e rivendicazioni di gruppi sempre più ristretti a discapito degli orientamenti e delle preoccupazioni della maggioranza della popolazione.

Alcuni sondaggi danno ad un ipotetico partito promosso dalla carismatica leader della Linke un potenziale di sostegno del 15%. Molto di più di quanto viene assegnato al partito d’origine che oscilla faticosamente tra il 4 e il 6%. Un consenso che verrebbe raccolto un po’ in tutte le aree, compreso coloro che oggi stanno gonfiando il successo dell’estrema destra dell’AfD.

La Linke è stata per un certo periodo un punto di riferimento per molta sinistra europea. In Francia lo stesso Melenchon fondò il Parti de Gauche alla presenza di Oskar Lafontaine prima di orientarsi verso una particolare versione del populismo di sinistra.

I travagli del partito tedesco rischiano, nelle elezioni politiche del 2025, di portare alla cancellazione della sinistra dal Parlamento, in un esito che potremmo definire “italiano”, nel quale la frammentazione in progetti contrapposti porta alla marginalizzazione permanente dal sistema politico. Oppure ad una trasformazione dell’assetto a sinistra con l’affermazione di una nuova formazione politica che tende però a ripiegarsi sulla realtà nazionale anziché contribuire a rafforzare una dimensione continentale della sinistra radicale che resta ancora molto debole.

Le vicende tedesche, con le loro peculiarità legate anche ad un più complessiva crisi del modello economico sul quale la Germania ha vissuto con relativo successo per diversi anni, devono essere inquadrate in una situazione di complessivo movimento della sinistra a livello europeo.

Syriza, dopo la recente doppia sconfitta elettorale, deve attrezzarsi al dopo-Tsipras e ridefinire la propria identità con spinte che tendono a ricollocarla più nel campo socialdemocratico tradizionale che in quello della nuova sinistra radicale.

In Francia, mentre Melenchon mantiene un indubbio protagonismo che però non si traduce ancora in un vero consolidamento della France Insoumise, il PCF di Roussel segue per certi versi una politica simile a quella proposta in Germania dalla Wagenknecht, cercando di rivolgersi ai settori popolari tradizionali (o come tali considerati) con un discorso che è in parte di restaurazione del passato piuttosto che di rinnovamento. Un progetto che nel medio periodo, considerata la struttura particolare del sistema politico francese che ruota attorno alle elezioni presidenziali, potrebbe anche registrare qualche successo.

In Spagna si è visto come si sia chiuso il ciclo politico legato all’ascesa di Podemos, e si è affermato un diverso soggetto politico, “Sumar”, in cui l’elemento populista è ridimensionato con un discorso che guarda alle “classi lavoratrici” senza necessariamente contrapporre queste alle aspirazioni dei nuovi movimenti identitari e post-materialisti.

La sinistra radicale in Europa ha teso a strutturarsi attorno a tre ipotesi strategiche possibili, intese come tipi ideali non riscontrabili come tali in forma pura nei diversi partiti: 1) il partito “arcobaleno” che cerca di collegare e rappresentare i diversi movimenti; 2) il partito “populista di sinistra”, che semplifica il conflitto tra il popolo e le élite, pur in una logica inclusiva e non esclusiva e gerarchica come è quella che guida la destra etno-nazionalista; 3) il “workers’ mass party” che si ripropone come strumento di una rinnovata politica di classe nel contesto determinato dalla egemonia del capitalismo neoliberista.

Ognuna di queste ipotesi cerca di formulare delle risposte alla crisi della sinistra anticapitalista collegata al movimento operaio che si è determinata a partire dagli anni ottanta. L’ipotesi populista è stata per un qualche periodo di un certo successo ma sembra ora in netto arretramento. La Linke invece è sembrata poter coniugare con un certo successo tutte e tre le varianti strategiche indicate. Ma ad un certo punto queste si sono andate divaricando e contrapponendo in modo da diventare tra loro escludenti.

L’ipotesi del “mass workers’ Party”, il partito di massa basato sulle classi lavoratrici, è sostenuta con una certa coerenza dalla rivista statunitense Jacobin, e trova appeal in diverse correnti politico-ideologiche e partiti della sinistra in Europa. Elementi di questa strategia si possono trovare in alcune formazioni di un certo successo e di diversa origine come il PT Belga o il Sinn Fein irlandese anche se entrambi hanno finora beneficiato dal fatto non essere stati messi alla prova del governo (se si esclude la presenza del Sinn Fein al nord in un contesto però molto particolare).

Il caso italiano si presenta in questo quadro come particolarmente complicato. Le tre ipotesi strategiche sono state perseguite a volte in contrapposizione e a volte mischiandole in modo eclettico, senza una vera elaborazione teorica coerente. Va anche considerata la presenza di due peculiarità. La prima è che per diversi decenni abbiamo avuto un partito anticapitalista di massa, fortemente radicato, come è stato il PCI togliattiano (senza cancellare l’esperienza più limitata del PSI morandiano). Con qualche forzatura, questo partito è stato considerato un punto di riferimento anche dal maggiore teorico del populismo di sinistra Ernesto Laclau.

La crisi di quel partito può essere collocata più che negli anni ’60 alla metà degli anni ’80 con la sconfitta del tentativo di rinnovamento portato avanti da Berlinguer.

L’idea del partito anticapitalista di massa di matrice togliattiana è stata anche fortemente avversata da varie correnti politico-ideologiche, sia legate alle tradizioni minoritarie del movimento operaio e comunista (bordighisti, trotskisti, ecc.) sia derivata da una radicalizzazione di settori minoritari del movimento socialista (Panzieri) e poi da tutta la corrente definita come operaista o post-unoperaista.

Con la crisi di Rifondazione comunista, nel quale erano confluite sia tendenze che si ponevano in una qualche continuità con la tradizione comunista italiana maggioritaria, sia altre che ne erano state ostili, si è determinata una frammentazione accentuata in progetti e identità politiche contrapposte, con una netta prevalenza di quelle correnti che si sono poste fin dall’inizio in contrapposizione con il modello di partito togliattiano (anche se spesso che cosa si intendesse per “togliattiano” non è mai stato del tutto precisato).

In questi giorni (con i 90 anni di Negri e la morte di Tronti) si è soprattutto celebrato il peso teorico dell’operaismo, nel quale la contrapposizione al “togliattismo”, pur in presenza di percorsi politici molto differenti, è stato sempre rivendicato come elemento comune e fondativo. Sono stati sottoposti a critica radicale tutti quelli che sono stati considerati (non sempre ragione) gli elementi caratteristici del paradigma attorno al quale andò costruendosi il PCI: lo storicismo, l’idea di progresso e di sviluppo, l’idea di continuità con i punti avanzati della cultura borghese. Ma anche elementi che più che togliattiani sono propri del marxismo come il lavoro come fonte della ricchezza, la contraddittorietà propria del capitalismo come sua condizione strutturale e fonte delle sue crisi e così via.

Un altro elemento caratteristico dell’operaismo è il rifiuto della classe operaia come “classe generale”, ovvero portatrice non tanto di un insieme di interessi propri quanto di una possibilità di far avanzare la società nel suo complesso verso una nuova forma di produzione tale da garantire in misura maggiore del capitalismo condizioni di libertà e uguaglianza (la classe che abolisce le classi). Per quanto apparentemente radicale questa visione della classe operaia come una “parte” non più portatrice di un interesse generale (per altro coerente con la cancellazione delle idee di sviluppo e progresso), ha anticipato ideologicamente la sua crisi e la vittoria del neoliberismo.  Grazie al quale le classi dominanti, ben lungi dal rinunciare al ruolo attribuito a sé stesse di “classi generali”, hanno affermato la propria idea di progresso e sviluppo, la propria politica di alleanze (non certo riducibile all’1% contrapposto al restante 99%) e infine la propria egemonia.

Cancellata l’idea della “classe generale” alla classe operaia non sarebbe rimasto altro che il ribellismo subalterno, magari attraverso la trasformazione in soggetti abbastanza mitologici (l’operaio sociale, le moltitudini, ecc.) o il passivo adattamento alla politica esistente (attraverso la rivendicazione della sua “autonomia”). Il comunismo, da formazione economico-sociale frutto di un possibile e complesso processo storico, è diventato l’espressione di un desiderio sempre presente e sempre realizzabile nel qui ed ora. Dato che nel frattempo il capitalismo ci avrebbe fatto il favore di avere già costruito tutto le condizioni necessarie per la realizzazione immediata di detto comunismo.

Naturalmente la crisi della sinistra radicale in Italia è frutto di una serie di elementi di contesto, cambiamenti sociali, scelte ed anche errori politici, ma ci si potrebbe chiedere se non ci sia anche qualche fondamento nel prevalere di correnti politico-ideologiche che non hanno saputo dimostrare, dopo aver partecipato alla demolizione, quanto meno teorica, di una esperienza di partito anticapitalista di massa (che pure aveva i suoi limiti e non certo riproducibile nei termini in cui si è storicamente definito), di poter costruire qualcosa di meglio. O, volendosi accontentare, anche qualcosa di peggio pur con una dimensione minimamente di massa.

Senza voler trarre da queste riflessioni un esito definitivo si può solo segnalare che forse sarebbe utile, per affrontare e cercare una soluzione alla crisi della sinistra radicale italiana, sviluppare un confronto meno schiacciato sulla tattica politica e sulle sue pur fondamentali scadenze e più rivolto a chiarirne i fondamenti. E in questo confronto cominciare a trarre un bilancio delle strategie proposte da quelle correnti politico-ideologiche che si sono proposte come alternative vincenti alla tradizione comunista italiana maggioritaria.