L’attentato a Togliatti e la resistenza del partito

di Lelio La Porta – Futura Umanità

«… se il 14 luglio 1948 fossi stato meno noioso nell’esporre in aula i problemi della fornitura di carta ai giornali, Togliatti non avrebbe avuto lo stimolo ad uscire per andarsi a prendere un gelato… Fu un giorno molto triste e al limite della rivoluzione. Ma la stessa sera, appena riprese i sensi, Togliatti mandò al Viminale il dottor Spallone con un messaggio tranquillizzante. La rivoluzione non ci sarebbe stata. Almeno per il momento», così scriveva in un articolo di un Contemporaneo, datato 13 agosto 2004, del settimanale La Rinascita della sinistra, Giulio Andreotti, che, nelle elezioni del 18 aprile del 1948, era stato eletto alla Camera dei deputati. Sulla stessa pagina del settimanale, al ricordo di Andreotti, faceva seguito quello di Armando Cossutta che, all’epoca dell’attentato, era Segretario cittadino del Pci di Sesto San Giovanni, la “Stalingrado d’Italia”. Raccontava Cossutta che fu indetta una grande manifestazione e mentre il vicesindaco socialista, Cazzaniga, parlava come se il Segretario comunista fosse morto, Cossutta, prendendo la parola, disse: «No! Togliatti è vivo ed è con noi, ed ora con Togliatti occupiamo le fabbriche». Seguì uno sciopero “magistrale”, pacifico, senza atti di violenza nonostante da più parti uscissero le armi che erano state nascoste durante la Liberazione «tanto che il commissario di polizia di Sesto pensò bene di presentarsi da me – ricorda Cossutta – alla sede del Partito e mi fa: “Dottore, Io non sono dottore, lo stoppai; e lui “dottore, io sono ai suoi ordini”. Ma era solo una mossa per seguirci più da vicino e conoscere meglio le nostre intenzioni, per capire cosa bollisse nella testa dei comunisti. In quelle ore nelle teste dei comunisti bolliva di tutto, lo sciopero generale fu travolgente e paralizzò l’intero Paese». Eppure, ricordava Cossutta, nessuno, lui per primo, credeva nella possibilità della guerra civile. E il segretario milanese Alberganti, nel corso di un comizio che si tenne successivamente, affermò in modo efficace: «Il 18 aprile ci siamo contati, il 14 luglio ci siamo pesati».

Se prendiamo in considerazione il criterio, suggerito dallo stesso Togliatti, di considerare la storia del Pci come parte integrante della storia d’Italia, si può tentare di periodizzare il quadro storico entro il quale si colloca l’attentato al Segretario comunista nell’ottica della comprensione di quale sia stato il peso reale dell’azione dei comunisti italiani nei processi avviatisi subito dopo l’entrata in vigore della Costituzione.

Da un punto di vista politico la periodizzazione sembrerebbe non presentare particolari difficoltà: aprile 1945 – maggio 1947, governo di unità nazionale; maggio 1947 – giugno 1953, maggioranza centrista e direzione di De Gasperi; 7 giugno 1953 – maggio 1958, crisi del centrismo. Più complicata la periodizzazione dal punto di vista dei cicli economici.

  1. Dal maggio 1945 alla primavera del 1947 si manifesta un ciclo economico detto monetario, caratterizzato da una forte inflazione. Sono gli anni dell’unificazione politica ed economica del Paese, con l’applicazione delle stesse leggi, la circolazione della stessa moneta, la direzione dell’amministrazione pubblica da parte del governo dei CLN, seppure sotto controllo alleato. La diffusione delle am-lire, la moneta prodotta dalle autorità militari alleate, facilita la diffusione dell’inflazione da Sud a Nord. Sono anche gli anni dell’inizio della ricostruzione di un Paese devastato dalla guerra e dalle occupazioni. Il ciclo inflazionistico raggiunge il livello più alto nel maggio 1947 e il ministro del Tesoro Luigi Einaudi cerca di contenerlo con l’inizio di una politica deflazionistica. La svolta economica
  2. corrisponde alla svolta politica costituita dall’estromissione di comunisti e socialisti dal governo. Il periodo di deflazione che segue si chiude nella primavera del 1948 con la vittoria democristiana del 18 aprile.
  3. Fra la primavera del ’48 e quella del ’52 si colloca il ciclo Marshall, all’interno del quale si assiste ad una ripresa economica garantita dalla stabilizzazione della lira e dall’utilizzazione dei prestiti americani Marshall. Il culmine di questo ciclo corrisponde ad una nuova sosta recessiva.
  4. Dal 1952 al 1958 quello che può essere definito il ciclo coreano con la prima forte espansione del capitalismo italiano del secondo dopoguerra.
  5. In ultimo il ciclo definibile europeo, dal 1958 al 1963, nel corso del quale si verifica il miracolo economico e l’economia italiana raggiunge un livello di notevole espansione.

Quali sono i punti di coincidenza fra i momenti che appartengono alle due serie di eventi? Detto in altro modo: quali sono i momenti di svolta economico-politica? Di certo maggio-giugno 1947 quando l’inizio della deflazione e della recessione determina una svolta economica che ha il suo corrispettivo politico nella rottura dei governi di unità nazionale. Ancora giugno 1953 quando alla svolta impressa alla congiuntura internazionale dalla conclusione della guerra di Corea corrisponde in Italia la sconfitta della legge truffa. In ultimo la fase successiva alle elezioni del maggio 1958 che videro sconfitto l’integralismo fanfaniano e a cui corrispose un momento di recessione economica.

Il periodo all’interno del quale va collocato l’attentato a Togliatti è inaugurato dalla rottura dell’unità nazionale (maggio 1947). Quale la causa? Da un lato l’inizio della guerra fredda, con la volontà statunitense di porre solide basi in Italia (a marzo l’esposizione al congresso statunitense della dottrina Truman che si proponeva di contrastare le mire espansioniste dell’avversario comunista nel mondo; è importante sottolineare come l’Unione Sovietica fosse chiaramente al centro dei pensieri di Truman, anche se nel suo discorso tale Paese non venne mai direttamente menzionato), dall’altro la necessità da parte delle forze conservatrici ed antioperaie italiane di avere in toto il controllo del governo. Le due motivazioni, quella internazionale e quella nazionale, trovarono il momento di sutura nel viaggio di De Gasperi in Usa nel gennaio del 1947 quando la Dc ottenne il totale appoggio statunitense nell’imporre la sua direzione politica ed economica in Italia alleandosi con il cosiddetto quarto partito, il partito del denaro (1). Quest’ultimo, rappresentato nella Costituente soltanto dal partito liberale, aveva alle spalle la forza del grande capitale monopolistico. Il leader, con la sua proposta di difesa della lira e di compressione dello sviluppo economico dell’Italia a beneficio di una ricostruzione capitalistica, era Luigi Einaudi. A questa linea si contrapponeva quella fissata dal congresso della CGIL del giugno 1947, sviluppata e ripresa da Di Vittorio con il Piano del Lavoro (1949), che aveva come problematiche di fondo la ricostruzione e l’occupazione, cioè un allargamento della spesa pubblica. La crisi del maggio viene letta da Togliatti come un evento da collegarsi alla situazione internazionale, ai crescenti contrasti fra le forze che diedero vita alla coalizione antifascista internazionale con un evidente ricaduta sulla politica interna.

Il Pci passava all’opposizione dopo essere cresciuto, in quanto partito nuovo, come forza dirigente nazionale. Ma non arrivò del tutto impreparato al passaggio all’opposizione visto che già nel gennaio 1947, nel corso della Conferenza di organizzazione tenutasi a Firenze, era stato dato l’avvio ad uno sforzo di inquadramento che si rivelò quanto mai appropriato nel momento del passaggio all’opposizione. Quali furono, in sintesi, le principali deliberazioni di carattere organizzativo che furono prese a Firenze? La costituzione di cellule di strada e di officina con un numero di iscritti non superiore a 70, proprio per favorire la massima attivizzazione dei militanti; all’interno delle cellule la formazione dei ‘gruppi di dieci’, guidate da un ‘collettore’ o capogruppo; il ruolo centrale del capogruppo ‘di dieci’, con funzioni di costante verifica del lavoro svolto e della qualità dello stesso (es.: la lettura della stampa del partito, l’aumento di conoscenze e di coscienza critica che ciò comportava); istituzione dei comitati regionali, dei comitati di fabbrica, comunali, di zona; la creazione delle cellule giovanili e femminili. Sempre per quanto riguarda le cellule, si stabiliva che i comitati direttivi dovessero essere composti di tre o cinque membri, che le fabbriche con più cellule creassero un comitato di coordinamento, che tutti i militanti fossero iscritti a una cellula di lavoro o di strada, che si dovesse evitare di organizzare cellule di categoria. I Comitati regionali non vennero subito ripristinati ed è da rilevare che solo agli inizi degli anni ‘60 vi fu uno sviluppo vero e proprio degli stessi come istanze di decentramento.

La prima prova che il Pci all’opposizione si trovava ad affrontare era costituita dalle elezioni politiche che seguivano l’approvazione della Costituzione, anche se la fase decisiva nella Costituente, dopo la rottura dell’unità nazionale, vide il partito in una condizione paradossale: da un lato forza di opposizione al governo, dall’altro lato forza che doveva necessariamente, come fece, proseguire una politica di collaborazione finalizzata all’elaborazione e all’approvazione della Costituzione. In maniera altrettanto significativa non va dimenticato che il Pci, già estromesso dal governo, nel luglio del 1947 si astenne dal voto per la ratifica del trattato di pace pur di non vedersi associato alle destre e, così, ne consentì l’approvazione da parte della Costituente.

Nel settembre del 1947 a Szklarska Poreba si riunirono i rappresentanti dei partiti comunisti polacco, sovietico, cecoslovacco, jugoslavo, bulgaro, romeno, ungherese, francese e italiano per dar vita al Cominform (Ufficio di informazione dei partiti comunisti con sede a Belgrado). Gli italiani furono criticati da Kardelj, supportato da Zdanov, con l’accusa di “deviazione verso l’opportunismo, il parlamentarismo” e per aver accettato l’esclusione dal governo nazionale e non aver sviluppato le possibilità esistenti per imprimere alla situazione un corso rivoluzionario. Longo difese la politica del Pci pur ammettendo un atteggiamento troppo morbido durante la crisi di maggio e riconoscendo che la situazione internazionale poneva ai comunisti italiani dei compiti nuovi.

Fra il 4 e il 10 gennaio del 1948 si svolse a Milano il VI congresso del Pci e già dalla relazione di Togliatti fu evidente il contraccolpo delle critiche del Cominform. Mentre individuava nell’incapacità di intervenire nella trasformazione democratica delle strutture economiche del Paese il limite maggiore del Partito, il Segretario valorizzava il ruolo dell’URSS nella difesa della pace e si dichiarava convinto della fine prossima del capitalismo. Manifestando le sue preoccupazioni per il pericolo di una nuova guerra e per un ritorno del fascismo, Togliatti individuava nella lotta per l’unità delle forze democratiche e lavoratrici una prima possibile soluzione ai problemi che aveva esposto. Nella sostanza si verificò un ripiegamento del partito su se stesso, una sorta di autocritica sulle «illusioni costituzionali», minimi accenni a una «via italiana al socialismo», la proposta di un’organizzazione sulla base del modello leninista del «partito di quadri». Pietro Secchia, responsabile dell’organizzazione, affiancò Longo come vicesegretario.

Ad aprile parte il piano Marshall.

Comunisti e socialisti decisero di presentarsi alle elezioni politiche indette per il 18 aprile 1948 nella lista denominata «Fronte democratico popolare» con un impianto propagandistico che voleva dimostrare il tradimento della DC nella comune battaglia antifascista e democratica affermando che la battaglia per le elezioni andava intesa come una prosecuzione di quella per la Repubblica. Nel febbraio, in piena campagna elettorale, accadono i fatti di Praga che la segnano negativamente per il Pci.

L’esito delle elezioni è noto.

Ai primi di maggio si riunisce il Comitato Centrale per discutere i risultati del voto: preso atto della sconfitta, Togliatti conferma gli obiettivi fissati per la costruzione della democrazia progressiva nelle «riforme di struttura che costituiscono la sostanza del nostro programma» ricordando che gli obiettivi dei comunisti sono la difesa delle libertà democratiche, dell’eguaglianza e dei diritti dei cittadini, delle libertà sindacali, della libertà di coscienza, dei diritti della cultura. A giugno, a Bucarest (per il Pci sono presenti Togliatti e Secchia), la Jugoslavia è allontanata dal Cominform: Togliatti aderisce alla scomunica di Tito (2). L’8 luglio, ad una settimana dall’attentato, Togliatti tiene un rapporto riservato ai quadri della Federazione romana nel quale “lascia trasparire con chiarezza il carattere reciproco che lega il Pci all’Urss”.(3)

Il 14 luglio 1948 Antonio Pallante attenta alla vita di Togliatti.

La mattina del 14 luglio, alle 11,30, mentre usciva dalla porta laterale di Montecitorio, in via della Missione, Palmiro Togliatti veniva raggiunto da due di quattro colpi di pistola sparati contro di lui da Antonio Pallante, un fanatico di destra, eccitato dalla violenta campagna di stampa, che seguiva la durissima campagna elettorale, contro il leader comunista e contro i comunisti.

Seguì un grande sciopero. Fabbriche occupate, piazze riempite a Roma e nelle grandi città del Nord, occupazione di pubblici edifici, scontri fra dimostranti e forze dell’ordine, morti e feriti in diverse località, in specie del Centro-Nord. Togliatti, ripresosi, invitò alla calma.mentre Longo e Secchia, i vicesegretari generali del partito, ne assunsero il controllo per cui, la sera del 15,1a calma era di fatto tornata grazie all’opera dei dirigenti comunisti, al loro sangue frcddo e alla loro prudenza. Altra fu la posizione del governo alla guida del quale De Gasperi si avvaleva di Scelba come Ministro dell’Interno; il governo, dunque, sfruttò l’occasione, mentre si preparava a reagire militarmente alla situazione, accusando il Pci e i leader della Cgil di un tentativo di sciopero insurrezionale. Chi fece le spese di questo clima fu proprio il sindacato.

Già da un anno, ossia dal Congresso confederale di Firenze, la corrente democristiana si era dimostrata contraria agli scioperi politici e a manifestazioni di  protesta contro i licenziamenti e la disoccupazione.

Lo sciopero generale di risposta all’attentato contro Togliatti fu sì politico ma ancor di più spontaneo.

L’esecutivo nazionale della Cgil si riunì nel tardo pomeriggio del 14 non per decidere lo sciopero generale, già in corso,  ma per fornire direttive per la sua attuazione. Fu inoltre decisa la diffusione di un manifesto nel quale si stigmatizzava  l’atteggiamento ostile del governo nei confronti dei lavoratori.

La mattina del 15 fu diffuso un comunicato governativo che accusava la Cgil di aver indetto uno sciopero generale insurrezionale. Nessun documento (sia esso verbale o altro) fa cenno ad un’opposizione della componente democristiana del sindacato alle posizioni del governo. Lo stesso giorno i membri democristiani del Comitato direttivo del sindacato indirizzarono una lettera a Di Vittorio nella quale si sosteneva che l’aggravamento della situazione del Paese era conseguenza delle decisioni prese dal sindacato e chiedeva la fine dello sciopero. Nel pomeriggio del 15, assenti i membri democristiani, fu decisa la fine dello sciopero per le 12 del giorno dopo. La scissione sindacale era ormai avvenuta.

Nel 1949 l’Italia entra nell’Alleanza Atlantica. Togliatti, relazionando al CC che si tiene a marzo, fa presente che «il fronte della pace è più largo di qualsiasi partito e di qualsiasi blocco di partiti». Contro il Patto Atlantico il Pci condusse una grande battaglia sia nel Paese sia in Parlamento, dove fu adottata la tattica dell’ostruzionismo il cui obiettivo era quello di scuotere la coscienza del Paese, di mostrare i pericoli che derivavano da quella scelta, di promuovere una mobilitazione popolare. Infatti il 1° maggio viene avviata una petizione popolare contro il Patto atlantico e a difesa della pace; il Pci usa uno strumento di democrazia diretta, appunto la petizione popolare, previsto dalla Costituzione e questa scelta colloca la lotta per la pace su un terreno legalitario (4). Il 1° luglio il Santo Uffizio decreta la scomunica per chi professa “la dottrina del comunismo materiale e anticristiano”. A tal proposito ci fu un incontro fra Togliatti e Stalin il 26 dicembre a Mosca nel corso del quale, come risulta dalle note scritte dal Segretario del Pci, il leader sovietico invitava a “non attaccare la religione” e “far vedere come attuale ricchezza e posizione Chiesa cattolica non corrisponde ad insegnamenti evangelici”(5).

Si aprì un periodo di dure lotte sociali ed espliciti attacchi nei confronti dei comunisti che Amendola sintetizzò nel modo seguente:

…le lotte per la difesa dell’industria …; l’occupazione delle fabbriche per impedire la smobilitazione (la Oto Melara a La Spezia, le Reggiane a Reggio Emilia, la Breda a Milano, l’Ilva a Napoli), lotte di mesi e mesi, nel corso delle quali si cercavano forme di consenso popolare e di più larghe solidarietà cittadine verso gli operai nella fabbrica; la lotta per l’imponibile nelle campagne. Ossia la lotta per l’occupazione. Fu uno dei grandi temi di quegli anni in Italia. Il Piano del lavoro della CGIL indicava le linee di una politica produttivistica, che puntava essenzialmente all’estensione dell’occupazione. (…) Alle lotte per l’occupazione si collegavano le lotte per la terra. (…) Le lotte per l’occupazione delle terre e per la riforma agraria furono accompagnate da una iniziativa politica unitaria: la convocazione per il 3-4 dicembre 1949 delle Assise per la rinascita del Mezzogiorno. Si tennero in 4 regioni (Crotone, Salerno, Bari e Matera) … 78 furono i morti in quegli anni, caduti negli scontri con la forza pubblica, o assassinati dalle bande di mafiosi, come i martiri di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947. (…) Ad ogni eccidio non mancò da parte della classe operaia una risposta (…) Risposte non facili che culminarono il 9 gennaio del 1950 nel grande sciopero per l’eccidio, a Modena, di otto operai che lottavano per il lavoro in fabbrica (6).

Ai funerali di Modena parteciparono Togliatti, Nenni e Di Vittorio. I deputati dell’opposizione di sinistra si riunirono in seduta pubblica e il governo fu diffidato dal proseguire sulla strada degli eccidi. Questa pressione ebbe il merito di ostacolare la prosecuzione della politica di repressione messa in atto da Scelba (fu ministro degli Interni dal 1947 al 1953 nel governo De Gasperi).

Il clima di latente guerra civile interna si mescola con il timore di un possibile conflitto nucleare (l’atomica sovietica è del settembre del 1949 e la proclamazione della Repubblica popolare cinese dell’ottobre) nelle parole consegnate da Cesare Pavese al suo diario in data 21 marzo 1950: «Giornata dura. Situazione italiana di latente guerra civile, voci varie di reazione atomica a catena per aprile» (7).

Il 25 giugno del 1950 scoppia la guerra di Corea che sembra diventare un punto di non ritorno nella guerra civile fredda che divide l’Italia. Vengono raccolte 16 milioni di firme per la pace, inizialmente per la messa al bando delle armi nucleari e, poi, anche contro la guerra, e il Pci, in questa grande mobilitazione, opera «una sortita fuori dalle mura della propria cittadella» (8) trovando intese con forze politiche e sociali di vario orientamento.

Ripresosi dall’incidente automobilistico occorsogli nel mese di agosto, mentre era a Mosca, dove giunse il 20 dicembre, «ufficialmente per completare la convalescenza» (9), arrivò a Togliatti, da Stalin in persona, che lo andò a visitare, la proposta di assumere la direzione del Cominform abbandonando l’incarico nel Pci e trasferendosi a Praga. La proposta ebbe il parere favorevole di diversi dirigenti italiani nel corso della Direzione tenutasi il 31 dicembre 1950. Togliatti scrisse a Stalin il 4 gennaio 1951 motivando il proprio rifiuto sia per questioni legate alla lotta politica in Italia sia per una crescente sfiducia in uno strumento come il Cominform definito «un’organizzazione clandestina» (10).

Il 19 gennaio, al Congresso della federazione di Reggio Emilia, scoppia il caso Magnani. Nella sua relazione al VII Congresso della federazione reggiana, Valdo Magnani denuncia l’opinione secondo la quale «nell’attuale fase di lotta nel mondo la rivoluzione può vincere solo sulle baionette di un esercito che oltrepassi la nostra frontiera» (11). Sottoposto a critica, si dimette dall’incarico insieme ad Aldo Cucchi e, poi, viene espulso dagli organi federali del Partito. Magnani, dopo diverse vicissitudini, rientrerà nel Pci nell’aprile del 1962.

Al VII Congresso (3-8 aprile, al Teatro Adriano a Roma) la relazione di Togliatti avrà come titolo «La lotta del popolo italiano per la pace, il lavoro, la libertà»:

È in corso oggi in Estremo Oriente una guerra in cui sono impegnati alcuni dei più grandi Stati del mondo. Il nostro governo ha preso aperta posizione per una delle parti belligeranti e precisamente per coloro che, intervenuti in un conflitto interno coreano, fanno la guerra al popolo della Corea e al popolo cinese. Noi ci troviamo quindi, se non direttamente almeno politicamente, impegnati in questa guerra.

La proposta comunista è chiara: ritiro dell’opposizione ad un governo che modifichi la sua politica estera. La conclusione è ancora più chiara: centralità della Costituzione e necessità di un governo di pace: «Dipende … dal popolo italiano e per tanta parte dai comunisti italiani che la Costituzione non sia soltanto un pezzo di carta» (12).

La tornata elettorale amministrativa che si tenne nel maggio del 1952 confermò una tendenza già in atto nelle elezioni amministrative dell’anno precedente: la Dc perdeva consensi a vantaggio delle destre mentre la sinistra manteneva i suoi consensi. L’esito del voto persuase la DC a tentare la strada di una nuova legge elettorale.

Il 5 marzo del 1953 muore Stalin.

Il III Consiglio Nazionale (Roma, 15-17 aprile) si apre con una relazione di Togliatti intitolata «Il programma dei comunisti per un governo di distensione e di riforme sociali» mentre inizia la battaglia (ostruzionismo in Parlamento e sciopero generale, il 30 marzo, nel Paese) contro la legge truffa (assegnazione al partito e a quelli apparentati che avessero conseguito il 50% dei voti più uno del 65% dei seggi). La legge è approvata il 29 marzo.

Si vota il 7 giugno.

Non scatta il premio di maggioranza previsto dalla legge e fallisce, di fatto, il progetto degasperiano di “democrazia protetta”. Il 1953 è, quindi, una svolta periodizzante nella quale si sovrappongono mutamenti decisivi: il cambio dei comandanti (Eisenhower e Malenkov) delle due superpotenze determina una spinta internazionale alla distensione e rimette in movimento la situazione politica interna tenendo presente anche l’armistizio in Corea il 27 luglio. La tendenza alla distensione internazionale viene confermata dalla Conferenza di Berlino dei Ministri degli esteri delle grandi potenze (1954). All’interno va esaurendosi il centrismo radicale come formula di governo e prende avvio una lenta apertura a sinistra.

Questo lento processo di apertura a sinistra trova, però, un freno nel governo Scelba (febbraio 1954). La polizia spara lacrimogeni sulla folla a Mussomeli e muoiono 4 persone.

Mezzogiorno di fuoco a Mussomeli quel 17 febbraio del 1954: la manifestazione di protesta delle donne del paese, accorse in più di duemila sotto le finestre del Comune a protestare per l’acqua, che manca 

da sei giorni, viene “dispersa” a colpi di bombe lacrimogene che provocano il panico tra la folla, che si accalca disperatamente nell’unica viuzza di uscita dalla piazza, un budello largo non più di tre metri. Tre donne e un ragazzo muoiono schiacciati, sotto “un mucchio di corpi pesti e feriti alto circa due metri” (come avrebbe riferito in Parlamento il Sottosegretario agli Interni il giorno dopo).

Tutte le generazioni sono state colpite dalla strage: Giuseppina Valenza di 72 anni, Onofria Pellitteri, di 50 anni, madre di 8 figli, Vincenza Messina di 25 anni, madre di 3 figli e in attesa del quarto, e un ragazzo di 16 anni, Giuseppe Cappalonga, andato in piazza a prendere la sorellina per riportarla a casa. Nove i feriti gravi, tra cui un bambino di 7 anni, Baldassare Mistretta, con il cranio fracassato.

Cos’era successo? Già il giorno prima migliaia di cittadini avevano protestato al Comune per l’acqua: dopo sei giorni non ne arrivava una goccia in paese, nemmeno nelle fontanelle pubbliche, nonostante il passaggio, l’anno prima, dell’acquedotto comunale all’Ente Acquedotti Siciliani, che aveva garantito 8 ore d’acqua tutti i giorni, ed entro un anno l’acqua corrente 24 ore su 24.

Ma l’acqua non era arrivata mai. Invece il messo comunale aveva cominciato a notificare ai mussomelesi bollette esorbitanti per il consumo dell’acqua degli ultimi due anni da pagare all’EAS, anche per chi non aveva ancora l’acqua corrente a casa, conteggiando 500 lire l’anno per chi andava ad attingere per strada, alle fontanelle pubbliche.

L’esasperazione popolare aveva investito il Sindaco, che aveva promesso di dare risposte chiare il giorno dopo, anche rispetto alle richieste di sospensione dei pagamenti. Ma l’avvocato Sorce il 17 febbraio non si era fatto trovare in Municipio, e, dalla Pretura dove si era asserragliato, aveva ordinato al maresciallo dei carabinieri, Sturiale, di procedere d’autorità a disperdere i dimostranti sulla piazza.

Il lancio dei candelotti lacrimogeni aveva provocato effetti devastanti. Il Governo avrebbe riferito alla Camera dei Deputati il giorno dopo, la versione ufficiale dei fatti:

“Furono lanciati 7 candelotti di lacrimogeni contro la folla, i dimostranti impauriti sbandarono e cercarono rifugio tra la via della Vittoria e Piazza Chiaramonte. Lì per un tragico caso si trovava un giovane manuale, Francesco Spoto, che portava un regolo di legno per muratori lungo 4 metri e largo 3 centimetri. Malamente il regolo di legno, dato che allo sbocco di via della Vittoria si aveva un punto largo poco più di tre metri, rimase all’estremità attaccato al muro. Sull’ostacolo inciamparono e venivano travolti decedendo sul posto: Giuseppa Valenza, Vincenza Messina, Giuseppa Cappalonga e Onofria Pellitteri.”

Quello stesso giorno si presentava alla Camera per la fiducia il nuovo Governo, presieduto da un siciliano, l’unico a ricoprire questa carica nella storia repubblicana: Mario Scelba, già tristemente famoso nei primi anni del dopoguerra da Ministro degli Interni per la sua repressione poliziesca delle manifestazioni operaie e contadine, in cui i reparti della “Celere” avevano sparato sulla folla provocando numerosi morti.

Quando Scelba aveva preso la parola, dopo un dibattito infuocato in cui parlamentari di tutti i partiti avevano chiesto al Governo di individuare con chiarezza le responsabilità di quello che era accaduto, tutti i deputati dell’opposizione, dopo un intervento di Togliatti in persona, avevano lasciato l’aula in segno di protesta.

Era il clima incandescente di un Paese in cui il conflitto sociale si manifestava con tutta l’asprezza di un dopoguerra il cui costo pesava sulle spalle dei più poveri, dei lavoratori del Sud, dei contadini che avevano lottato per la riforma agraria (a Mussomeli era stata epica la battaglia per l’assegnazione del feudo di Polizzello, in cui i gabelloti mafiosi avevano accolto  con i mitra spianati la marcia dei contadini per la quotizzazione del latifondo), e degli zolfatari che si asserragliavano in sciopero per settimane nel sottosuolo per qualche lira in più di salario al giorno.

Nelle aule del parlamento quel conflitto si trasformava in una battaglia politica ad alta tensione, anche morale, in cui tutti i leader si impegnavano quotidianamente sui problemi delle periferie del Paese, e l’eco di quelle lotte dei lavoratori risuonava nel Palazzo e scandiva i tempi dell’”agenda politica”, molto diversamente da quanto avviene oggi.

La lettura della società era il pane quotidiano di quella politica, e il dibattito della Camera del 3 giugno 1954 sui fatti Mussomeli, sollecitato da nuove interrogazioni di tutti i gruppi, avrebbe fatto emergere trame inquietanti dietro alla strage per l’acqua del febbraio.

“Chi è il sindaco di Mussomeli? – si chiedeva in quella seduta il deputato nisseno Guido Faletra – È un uomo di paglia della mafia, messo a quel posto, non per tutelare e difendere l’interesse dei suoi concittadini ricchi e poveri e di qualunque colore politico, ma per vigilare affinchè l’interesse degli agrari e della mafia non venga leso.”

A Mussomeli i morti per l’acqua non avevano avuto giustizia. Anzi, nella notte del 1° aprile un rastrellamento notturno aveva prodotto 60 arresti tra i familiari delle vittime e dei manifestanti, accusati di “adunata sediziosa”, e di avere assaltato il Municipio minacciando di invaderlo.

“Cosi’ Mussomeli è stata punita severamente una seconda volta, dopo i morti e i feriti – incalzava alla Camera il deputato Calandrone – punita la popolazione di Mussomeli per avere osato protestare contro l’ingiustizia atroce, contro il danno e la beffa di dovere pagare profumatamente quell’acqua che essi non avevano avuto!”

Ne sarebbe seguito un processo paradossale, dopo indagini condotte dallo stesso maresciallo dei carabinieri che aveva ordinato il lancio dei lacrimogeni responsabile della strage; con carabinieri che in aula sbagliavano ad indicare i manifestanti che dovevano dire di riconoscere, con un collegio di difesa dei parenti delle vittime composto dai principi del foro della Sicilia e guidato da Umberto Terracini, (il Presidente dell’Assemblea Costituente che ha apposto la sua firma in calce alla Costituzione), ma in cui la sentenza era prevedibilmente scontata, a tutela del Sindaco e dei Carabinieri:  un processo concluso con 27 condanne, la più pesante delle quali, (nove mesi di reclusione), al Segretario della Camera del lavoro, Salvatore Guarino, che non era stato neppure presente in piazza quel giorno.

Le condanne dell’ottobre 1954, confermate in appello, avrebbero rappresentato, per anni, l’”epurazione politica” del paese: decapitato il movimento sindacale e politico dei contadini, e poi, fallita la riforma agraria, un’ondata di emigrazione avrebbe portato lontano, all’estero e al nord, migliaia di lavoratori e di famiglie.

In quel 1954, d’estate, morto a Villalba don Calogero Vizzini, aveva preso il suo posto di “capo dei capi” della mafia siciliana proprio il boss di Mussomeli, Giuseppe Genco Russo, già sindaco del paese nominato dagli anglo-americani nel 1943, che qualche anno dopo, nel 1960, sarebbe stato eletto a furor di popolo consigliere comunale e assessore nella lista della Democrazia Cristiana.

E ancora per tanto tempo, i cittadini di Mussomeli avrebbero desiderato l’acqua come una grazia del cielo e non come un diritto ad un bene comune (13)

A queste tensioni interne si aggiungono quelle internazionali legate allo sviluppo delle armi nucleari. Togliatti, dalle colonne de l’Unità, il 13 aprile, rivolge un appello al mondo cattolico intitolato Trovare un accordo fra il mondo cattolico e il mondo comunista per salvare la civiltà minacciata di distruzione dalla bomba H. Intanto il governo Scelba si muove lungo la strada del cosiddetto “attacco legalitario” (14) al Pci presentando al Consiglio dei Ministri un pacchetto di provvedimenti basati sul presupposto della estraneità dei comunisti alla democrazia italiana e avviando una serie di provvedimenti finalizzati a contrastare il radicamento sociale e organizzativo del Partito: sfratto delle Case del popolo, trasferimento di funzionari pubblici, sospensione di sindaci e amministratori. La risposta dei comunisti fu affidata ad un’intervista di Togliatti apparsa sul quotidiano del Partito nel dicembre nella quale, stigmatizzando le misure antidemocratiche del governo Scelba-Saragat, il Segretario del Pci aggiungeva:

Le conseguenze saranno, a più o meno lunga scadenza, precisamente l’opposto di ciò che si ripromettono coloro che intendono attuare queste misure. La democrazia vincerà e progredirà, e noi con essa (15).

l’Unità saluta l’apertura della IV Conferenza nazionale (Roma, 9-14 gennaio 1955 con relazione di Togliatti dal titolo «La lotta dei comunisti per la libertà, la pace e il socialismo») con un titolo che riconduce al tema della pace: Salviamo l’umanità dall’aggravato pericolo atomico. Il clima che si respira durante la Conferenza è di difesa anche perché la presenza occhiuta del Ministero degli Interni si fa sentire sui delegati, che vengono nella maggior parte schedati. Si tratta di un momento nel quale il Partito sente forte l’esigenza di tornare a fare politica ma, dall’altro lato, deve mantenere un atteggiamento prudente, di difesa vista l’attività manifestamente anticomunista del Governo. Per evitare l’isolamento Togliatti sottolinea l’importanza del patto con i socialisti che avrà come sua prima conseguenza la convergenza dei voti socialisti e comunisti su Gronchi, che verrà eletto Presidente della Repubblica. Seguirà la comune astensione sulla fiducia al nuovo governo Segni: sono, comunque, segnali di un’apertura a sinistra.

Va colto immediatamente il limite temporale della presente analisi: dalla rottura dell’unità nazionale del maggio 1947 fino agli esiti del governo presieduto da Scelba (1954-1955) in un’Italia sempre di più, soprattutto con la partecipazione alla Nato e con la presenza di un Pci uscito rafforzato dalle tornate elettorali amministrative e nazionali (1952 e 1953), luogo centrale della guerra fredda. Proprio il rafforzamento del Pci costituisce un primo elemento di riflessione per capire la logica dell’intervento statunitense nel nostro Paese: da un lato, l’obiettivo fu un sostegno alle componenti moderate presenti nella maggioranza di govemo, supportato da un incremento degli investimenti pubblici e dalla rimozione delle clausole del trattato di pace; dall’altro lato non venne esclusa, come nella realtà avvenne, la possibilità di ricorrere a misure più drastiche contro il Pci. Esisteva, comunque, la   preoccupazione che un’eventuale  repressione anticomunista svuotasse del suo contenuto precipuo   lo stesso Stato di diritto; però, la possibilità di un intervento violento fu sempre presente.

Spettò agli alleati italiani degli Usa, e in specie alla Democrazia cristiana, garantire un contenimento comunista, e della sinistra in genere, senza ricorrere ad estremismi che avrebbero potuto destabilizzare il quadro di controllo interclassista della società italiana su cui i democratici-cristiani basavano il loro sistema di potere. Senza dimenticare che il contenimento voleva dire cautelarsi anche sul versante rischiosissimo della guerra fredda, ovvero occupare il centro dello schieramento politico nazionale mantenendosi in una posizione di fatto ibrida anche nella dimensione dello scontro in corso a livello mondiale. Come fu possibile allora conciliare due strategie che tanto convergenti non sembravano essere? Infatti, un’ulteriore differenza, che fu un vero e proprio attrito, riguardò le ipotesi di sistemazione dell’economia italiana dopo la guerra: secondo gli americani, bisognava operare profonde trasformazioni economiche in Italia al fine, anche, di bloccare un’avanzata comunista e della sinistra che avrebbe potuto trovare consistente terreno di coltura nella richiesta di riforme economiche; secondo la Dc, invece, si trattava di mediare, di controllare, di stabilizzare in quanto il quadro politico che emergeva dalla lotta di Liberazione era così articolato e foriero di possibili sviluppi che l’unico modo per tenerlo a bada era rappresentato da un’accorta posizione centrista che non desse sfogo a contrapposizioni frontali fra l’opzione antifascista e quella anticomunista.

Contrapposizione che era del tutto sconosciuta al resto dell’Alleanza Atlantica, Stati Uniti in testa, che aveva combattuto i totalitarismi fascista e nazista alleandosi con un Paese come I’Urss, ritenuto totalitario al pari degli altri, ma fondamentale nella lotta contro di loro. Se le cose stanno così, assumono plausibilità le resistenze della leadership democratico-cristiana di fronte alle richieste statunitensi; resistenze che dimostrerebbero come l’anticomunismo in Italia sia stato il frutto non tanto delle conseguenze della guerra fredda quanto di una politica ambigua nei rapporti e nella assunzione delle decisioni da parte dei due partners.

Un anticomunismo che, alla fin fine, proprio con l’esperienza del governo Scelba, vide tramontare ogni possibilità di messa fuori legge del Pci il quale, anzi, consolidava il suo ruolo nella società italiana pur in un quadro di democrazia bloccata.

 

NOTE

  1.  (…) i voti non sono tutto (…). Non sono i nostri milioni di elettori che possono fornire allo Stato i miliardi e la potenza economica necessaria a dominare la situazione. Vi è in Italia un quarto Partito, che può non avere molti elettori, ma che è capace di paralizzare e di rendere vano ogni nostro sforzo, organizzando il sabotaggio del prestito e la fuga dei capitali, l’aumento dei prezzi o le campagne scandalistiche. L’esperienza mi ha convinto che non si governa oggi l’Italia senza attrarre nella nuova formazione di Governo, in una forma o nell’altra, i rappresentanti di questo quarto Partito, del partito di coloro che dispongono del denaro e della forza economica. (De Gasperi a un consiglio dei ministri dell’aprile 1947; citato in E. Sereni, Il Mezzogiorno all’opposizione, Einaudi, Torino 1948, p. 21)
  2. Togliatti rivedrà la sua posizione su Tito nell’VIII Congresso del 1956 quando si esprimerà nei termini di un’”errata decisione che portò alla rottura con il movimento jugoslavo” (Gramsci, Togliatti, Longo, Berlinguer, Essere comunisti. Il ruolo del Pci nella società italiana, a cura di L. La Porta, Editori Riuniti, Roma 2020, p. 156).
  3.  G. Gozzini e R. Martinelli, Storia del Partito comunista italiano. Dall’attentato a Togliatti all’VIII Congresso, Einaudi, Torino 1998, p. 11.
  4.  “Tutti i cittadini possono rivolgere petizioni alle Camere per chiedere provvedimenti legislativi o esporre comuni necessità” (Articolo 50 della Costituzione italiana). L’articolo 50 compare in calce ai moduli distribuiti per la raccolta delle firme.
  5.  Note di Togliatti su un incontro con Stalin a Mosca, 26 dicembre 1949, in Ventunesimo SecoloVol. 6, No. 14, A 50 anni dai trattati di Roma (Ottobre 2007), pp. 197-199, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli. All’inizio del 1949 gli Editori Riuniti avevano pubblicato il Trattato sulla tolleranza di Voltaire tradotto ed introdotto da Togliatti.
  6.  G. Amendola, Gli anni della Repubblica, Editori Riuniti, Roma 1976, pp. 105-106.
  7.  C. Pavese, Il mestiere di vivere, Einaudi, Torino 1952, p. 399.
  8.  G. Gozzini e R. Martinelli, Storia del Partito comunista italiano. Dall’attentato a Togliatti all’VIII Congresso, cit., p. 177.
  9.  Ivi, p. 190.
  10.  P. Togliatti, La guerra di posizione in Italia. Epistolario 1944-1964, a cura di G. Fiocco e M. L. Righi, Introduzione di G. Vacca, Einaudi, Torino 2014, p. 175. L’intera lettera di Togliatti a Stalin è alle pp. 172-177.
  11.  G. Gozzini e R. Martinelli, Storia del Partito comunista italiano. Dall’attentato a Togliatti all’VIII Congresso, cit., p. 200.
  12.  VII Congresso del partito comunista italiano. 3-8 aprile 1951. Resoconto, Edizioni di cultura sociale, Roma 1954 in G. Gozzini e R. Martinelli, Storia del Partito comunista italiano. Dall’attentato a Togliatti all’VIII Congresso, cit., pp. 210-252.
  13.  Michele Spena, Il Fatto Nisseno, 17 febbraio 2014.
  14.  Formula adoperata già dal 1951 da Barletta, direttore della polizia politica presso il Ministero degli Interni.
  15.  Già nell’aprile, nel corso di un CC, Togliatti aveva parlato di lotta contro “il maccartismo del governo Scelba-Saragat che mira a esasperare i conflitti interni e internazionali”. Va ricordato che nel mese di luglio il Partito dovette affrontare il caso Seniga, viceresponsabile della commissione vigilanza e collaboratore di Secchia, che si concluse con la fine della carriera politica di Secchia. Si veda sulla vicenda G. Gozzini e R. Martinelli, Storia del Partito comunista italiano. Dall’attentato a Togliatti all’VIII Congresso, cit., pp. 347-358.