Perù al voto, America Latina in movimento

Il Perù si prepara al secondo turno delle elezioni presidenziali che si terrà domenica 6 giugno in una condizione di grande incertezza.

di Franco Ferrari – Transform! Italia

La maggioranza degli istituti di sondaggio attivi nel Paese latinoamericano danno in testa il candidato di sinistra Pedro Castillo, ma il suo vantaggio nei confronti della rivale Keiko Fujimori, espressione della destra ultraliberista, si aggirerebbe sull’1-2%. Un distacco inferiore al margine di errore previsto dai sondaggi stessi. Al primo turno il risultato di Castillo, presentato dal partito di estrema sinistra Perù Libre, era stato nettamente sottostimato rispetto a quanto effettivamente raccolto nelle urne, ma è difficile prevedere quale potrà essere il risultato finale.

Il Perù non ha più registrato una forza consistente di sinistra, sul piano elettorale, dopo la crisi di Izquierda Unida che, nei primi anni ’80, conquistò il municipio di Lima con Alfonso Barrantes. Per effetto di divisioni interne (si erano arrivati a contare una trentina di partiti tra comunisti filosovietici, maoisti, trotskisti, guevaristi, mariateguisti, seguaci della dittatura militare progressista del generale Velasques e altri) che avevano portato alla rottura della coalizione unitaria e l’impatto devastante sulla società peruviana della guerriglia di Sendero Luminoso, alla quale rispose una repressione altrettanto indiscriminata, per molto tempo la destra aveva potuto governare pressoché incontrastata. In particolare durante il governo autoritario di Alberto Fujimori.

Nel 2011, gran parte delle forze organizzate di sinistra (che mantenevano un certo seguito di massa grazie alla confederazione sindacale CGTP, nella quale sono tradizionalmente influenti i comunisti, e il sindacato degli insegnanti SUTEP, con una forte presenza del partito di derivazione maoista Patria Roja) avevano sostenuto la campagna presidenziale di Ollanta Humala, che si era posto alla guida di uno schieramento nazionalista e progressista. Ma una volta eletto, Humala si è rapidamente allineato con l’establishment economico tradendo le promesse elettorali e finendo la presidenza nel discredito generale.

Nel 2016, gran parte della sinistra (ma non Perù Libre) si era unita nel Frente Amplio che aveva candidato la giovane e combattiva Veronika Mendoza. Con quasi il 19% dei voti aveva ottenuto un risultato significativo ma insufficiente per accedere al ballottaggio, nel quale si confrontarono Keiko Fujimori e il tecnocrate liberale Pedro Pablo Kuczynski. La convergenza dell’elettorato su quest’ultimo impedì la vittoria della Fujimori, anche se con un margine ridottissimo di poche decine di migliaia di voti, a conferma della forza che mantiene il progetto autoritario di cui la Fujimori è erede.

La sinistra si è presentata al primo turno delle elezioni presidenziali di quest’anno divisa tra Veronika Mendoza che, dopo la rottura del gruppo parlamentare del Frente Amplio, ha costituito la nuova coalizione Juntos por el Peru, nella quale sono confluite le due principali formazioni comuniste PCP (“Unidad”) e PCdelP (“Patria Roja”) e Pedro Castillo sostenuto da Perù Libre. Veronika Mendoza ha presentato un programma progressista ragionevole e prudente nella convinzione di poter allargare il consenso ottenuto cinque anni fa. Il risultato, inferiore all’8% ha dimostrato che questa impostazione non ha consentito di fare presa su una popolazione colpita duramente dal sovrapporsi della crisi politica (con tre presidenti eletti e poi destituiti dal Parlamento), forti difficoltà economiche e dalla pandemia che vede il Peru diventare il Paese con il maggior numero di decessi in relazione alla popolazione.

A sorpresa, il più votato è risultato Pedro Castillo, che nei primi sondaggi era dato con un consenso residuale del 2-3%. Il partito che lo ha proposto, fondato e guidato da Vladimir Cerron, si definisce come marxista-leninista-mariateguista. È stato fondato nel 2007, con un nome diverso dall’attuale, con un carattere di forza regionale. Il suo leader è stato governatore di Junin, una provincia della parte centrale del Perù, con capitale la città di Huancayo. La sua gestione è stata piuttosto controversa ed è stata interrotta da una condanna per corruzione. Alle elezioni parlamentari del 26 gennaio 2020, Perù Libre aveva ottenuto solo il 3,4%, restando fuori dal Parlamento nazionale, per il cui ingresso è prevista la soglia minima del 5%.

In vista delle elezioni presidenziali di quest’anno erano state avviate trattative per realizzare una convergenza tra Juntos por el Perù di Veronika Mendoza e Perù Libre, ma alla fine le opposizioni ad un accordo, molto forti all’interno di entrambi gli schieramenti, hanno prevalso. La convergenza si è realizzata in vista del secondo turno in una conferenza stampa nella quale si sono affiancati Veronika Mendoza e Pedro Castillo.

La biografia politica di Pedro Castillo è più moderata del partito che lo ha presentato. Dal 2005 al 2017 è stato il principale referente politico di Perù Posible, un partito moderato guidato da Alejandro Toledo, nella provincia di Cajamarca. È diventato un protagonista della vita politica nazionale per aver guidato un durissimo sciopero degli insegnanti nel 2017. In quella occasione era stato accusato di avere rapporti con il Movadef, un movimento formato da ex militanti di Sendero Luminoso che hanno abbandonato la guerriglia e continuano a fare riferimento ad Abimael Guzman, fondatore del movimento e in prigione ormai da decenni. Questa accusa è riemersa com’era prevedibile in occasione delle elezioni presidenziali.

Una frangia ormai molto marginale del vecchio movimento terrorista si è rifatta viva (almeno stando alle ricostruzioni poliziesche e dei media) proprio in queste settimane nelle quali si sta svolgendo la campagna elettorale, con un massacro di sedici cittadini inermi nel VRAEM, la vallata dove continuerebbe ad operare il cosiddetto PCP “Militarizado”, guidato da Victor Quispe Palomino.

La campagna elettorale per il secondo turno è fortemente polarizzata, tra l’allarme della destra contro l’arrivo del “comunismo” e il timore della sinistra e di molte forze democratiche per il ritorno all’ultraliberismo autoritario che ha caratterizzato la presidenza di Alberto Fujimori, di cui la figlia si propone la prosecuzione. La divisione elettorale tra le due candidature è una divisione sociale e geografica.

Fujimori prevale decisamente nel ceto medio e medio-alto e Castillo nei settori popolari. La candidata della destra sembra destinata a vincere con un ampio vantaggio a Lima e in tutta l’area metropolitana della capitale, mentre l’esponente della sinistra è in forte vantaggio nel sud, nelle province del cosiddetto Peru profondo, spesso abbandonato dalle élite metropolitane. È in queste zone che il candidato di Perù Libre (con il simbolo della matita) viene accolto da folle festanti. Un vignettista peruviano ha rappresentato lo scontro come una battaglia cinquecentesca fra gli indios e gli invasori spagnoli con alla guida di questi ultimi non solo la Fujimori ma anche lo scrittore Vargas Llosa, intellettuale di riferimento della destra peruviana e latinoamericana.

La campagna elettorale di Castillo ha cercato di respingere l’idea di una possibile presidenza “estremista” per puntare ai temi di una maggiore giustizia sociale, un rafforzamento e un estensione dei servizi sociali da cui molti sono ancora esclusi, la difesa della ricchezza nazionale senza dover necessariamente ricorrere ad estese nazionalizzazioni e l’elezione di una Assemblea Costituente che, come avviene in Cile, possa introdurre una nuova carta costituzionale in sostituzione di quella voluto a suo tempo da Alberto Fujimori.

Il candidato sostenuto dalla sinistra, presenta sicuramente un profilo antiliberista con tratti populisti (pressoché inevitabile nei contesti politici latinoamericani) sui temi socio-economici, ma con posizioni molto conservatrici sulle questioni di società (aborto, questioni di genere e diritti LCBTQ+) al punto che almeno un osservatore lo ha classificato, esagerando a mio parere, come espressione di una falsa sinistra, in realtà solo ennesima maschera della destra tradizionale. D’altra parte posizioni analoghe sono presenti anche in altre realtà, come il movimento correista in Ecuador.

L’eventuale elezione di Castillo nel ballottaggio di domenica 6 giugno non sarà sufficiente per avviare senza ostacoli una nuova fase politica nel Paese. Il suo partito conta solo 37 seggi sui 130 che compongono il Congresso. A questi si potranno aggiungere i 4 di Juntos por el Perù, ma per arrivare ad una maggioranza occorrerà trovare il modo di trattare con altre forze politiche, spesso veicoli di interessi personali o clientele e di non di facile gestione.

La possibilità, inattesa, di un successo della sinistra peruviana, va collocata in un contesto continentale in movimento. Dopo la cosiddetta “onda rosa” che ha portato al governo diversi governi di sinistra più o meno radicale, si stava registrando un movimento contrario caratterizzato dal ritorno della destra dura (il Brasile innanzitutto). Ma questo spostamento non sembra essere in grado di consolidarsi. Domenica 6 giugno si terranno elezioni parlamentari in Messico, unitamente al rinnovo di diversi governatorati. Le forze che sostengono il Presidente progressista in carica Lopez Obrador (Morena, Partido del Trabajo, ecologisti e altre minori) dovrebbero confermare l’attuale maggioranza, al punto che tutte le altre forze politiche tradizionali (PRI, PAN, PRD) si sono unite per cercare di indebolire l’amministrazione in carica.

La vittoria in Ecuador di Guillermo Lasso è stato più il frutto della divisione dello schieramento popolare che di una vera affermazione dei liberisti. In Bolivia, il MAS ha riconquistato la Presidenza, dopo il golpe, benché resti incompleto un necessario processo di rinnovamento. In Cile le recenti elezioni per l’Assemblea Costituente, dopo un ampio movimento popolare duramente represso, ha segnato una secca sconfitta per i sostenitori del Presidente Piṅera. Alle prossime elezioni presidenziali la sinistra radicale potrebbe presentarsi con buone prospettive dopo aver sciolto, nelle primarie che si terranno a metà luglio, il nodo della individuazione di una candidatura unitaria tra il Partito Comunista e il Frente Amplio. L’anno prossimo si voterà in Colombia e la Presidenza di Ivan Duque (partito collegato a “Fratelli d’Italia” di Giorgia Meloni nel partito dei “conservatori e rifomisti”) è scossa dalle proteste popolari alle quali risponde con la militarizzazione crescente della repressione. Infine, in Brasile si sta risvegliando il movimento popolare di opposizione a Jair Bolsonaro.

Insomma, un quadro in aperto movimento, nel quale le forze popolari e di sinistra possono spostare gli equilibri e aprire una nuova stagione di governi progressisti. Non privi certamente di limiti e contraddizioni ma tali da offrire nuove occasioni di rafforzamento alle classi popolari e subalterne.