Atti disperati nel declino del sistema capitalista statunitense

Come tutti i sistemi economici della storia documentata, il destino del capitalismo sembra ripetere lo stesso viaggio in tre fasi: nascita, evoluzione e morte.

di Richard D. Wolff* – Independent Media Institute

Tempi e dettagli dell’evoluzione di ciascun sistema differiscono. Nascita ed evoluzione sono spesso vissute positivamente, e vengono celebrate per il loro progresso e la speranza. Il declino e la morte, tuttavia, vengono spesso vissuti con diniego, difficoltà e sconforto. Nonostante i discorsi politici ottimisti sul futuro, il capitalismo statunitense ha raggiunto e superato il proprio apice. Come per l’Impero Britannico dopo la prima guerra mondiale, il percorso diventa ora difficile.

I segni del declino si accumulano. Gli ultimi 40 anni di lenta crescita economica hanno visto il 10% più ricco prendersi quasi tutto. L’altro 90% ha subito una crescita dei salari reali limitata che ha spinto a chiedere enormi prestiti (per case, auto, carte di credito e spese universitarie). I creditori erano, ovviamente, perlopiù l’altro 10%. I costi dei college sono aumentati mentre diminuiscono i buoni posti di lavoro e il reddito dei laureati. Per quelli senza laurea la situazione è ancora peggio. I divari in ricchezza e reddito sono aumentati vertiginosamente. Per mantenersi in cima a queste disuguaglianze, il 10% ha aumentato il proprio dominio sulla politica e sulla cultura tramite le donazioni. I politici accondiscendenti hanno rafforzato poi i divari di ricchezza e reddito in quella tipica spirale che si forma nei sistemi in declino.

L’inesorabile e crescente divario risulta particolarmente doloroso per gli Stati Uniti, dal momento che era stato temporaneamente invertito negli anni Trenta e Quaranta. Allora, tale riduzione del divario (celebrata come l’ascesa di un vasto “ceto medio”) portò a rinnovate affermazioni dell’ottimismo americano e delle virtù del capitalismo. Si diceva che stavamo vivendo in un “capitalismo popolare” post-1930. In parte era vero, ma non di più. Ha fatto sì che le aspettative sui posti di lavoro e sui redditi del “ceto medio” fossero diritti di nascita della maggior parte degli americani (bianchi). Il divario sempre più profondo dagli anni Settanta ha prima deluso e poi fatto crollare quelle aspettative. Una sorta di amarezza per il sogno americano che svanisce si è insediata e ha scosso la coscienza popolare. Il capitalismo è diventato sempre più deludente, un segno del declino del sistema. Un altro segno è il crescente interesse verso il socialismo e le elezioni di socialisti nonostante gli incessanti martellamenti antisocialisti dalla Guerra Fredda in poi.

La reazione del Paese al Covid-19 mostra ulteriori sintomi. Con il 4% della popolazione globale, gli Stati Uniti rappresentano il 20% dei decessi per Covid-19 nel mondo. Nonostante sia un Paese ricco con un servizio sanitario ben sviluppato, il sistema nel suo insieme non è riuscito a far fronte ai problemi. La sua situazione è purtroppo paragonabile a quella di molte nazioni meno ricche e meno attrezzate dal punto di vista medico. Negli Stati Uniti la sperimentazione, la prevenzione, il trattamento e la vaccinazione rimangono irregolari, lacunosi e lenti.

Durante l’ultimo crollo del capitalismo di simile portata, la Grande Depressione degli anni Trenta insieme alla Seconda Guerra Mondiale, l’estrema disparità della distribuzione della ricchezza e del reddito degli anni Trenta furono ridotte di oltre un terzo. In forte contrasto, questo ultimo crollo capitalista, insieme alla pandemia, ha aumentato oltremodo la disuguaglianza delle distribuzioni. La flessibilità del capitalismo statunitense dal 1930 al 1945 è in contrasto con la rigidità delle sue distribuzioni attuali di reddito e ricchezza. Allora la nazione si era mobilitata di fronte a enormi pericoli. Ora questa nazione si divide. Un capitalismo ancora in ascesa si è quindi fossilizzato e il declino è iniziato.

Gli ultimi 40 anni di ridistribuzione dell’aumento del reddito e della ricchezza dal ceto medio e povero a quello alto è culminata con il taglio alle tasse di Trump del 2017. Nel trentennio precedente, le aziende e il 10% più ricco (che possiede più dell’80% dei titoli del mercato azionario) hanno registrato guadagni eccezionali rispetto al restante 90%. Non avevano assolutamente “bisogno” di una riduzione fiscale. Ma il Partito Repubblicano, al comando del governo degli Stati Uniti, l’ha imposta comunque. Ciò ha accresciuto ancora di più la dipendenza dai disavanzi e dall’indebitamento nazionale dopo il crollo del 2008-2009. L’esplosione senza precedenti e costante del capitale e l’aumento del debito nazionale sono i segni nella finanza pubblica del declino capitalista.

A seguito della caduta dell’Impero Romano, molti accusarono per il declino la resistenza proveniente dalle zone remote. Venivano chiamati “barbari”, additati come “invasori” e divenuti capri espiatori per sviare l’attenzione dai segni di decadimento interno. Oggi, il timore e le accuse verso gli immigrati e gli stranieri che “rovinano” gli Stati Uniti sia economicamente che politicamente sono anch’essi segni di declino. La notevole crescita economica degli Stati Uniti nel corso della sua storia ha “risolto” i problemi di lavoro combinando l’aumento del salario per i lavoratori americani e l’enorme immigrazione di lavoratori sottopagati. Un capitalismo in crescita avrebbe dovuto soddisfare entrambe le parti di tale soluzione. Il capitalismo statunitense odierno non può accontentare nessuno dei due.

Le recenti guerre in Afghanistan e Iraq non sono state né necessarie né di successo in termini militari. Hanno significato una massiccia spesa pubblica e giustificato le crescenti spese per la “difesa” nei bilanci federali. L’Unione Sovietica non rappresenta più una minaccia. Una guerra senza confini e mondiale al “terrorismo” ha fornito un pericolo esterno temporaneo fino a quando il fulcro odierno verso una nuova Guerra Fredda contro la Cina potrà emergere come principale giustificazione. Ma qualunque sia la protezione globale che le forze armate statunitensi forniscono alle catene di approvvigionamento vulnerabili di oggi, anche le enormi spese militari hanno contribuito a trascurare la manutenzione delle infrastrutture. Adesso è urgente. Il vecchio problema di “pistole contro burro” tipicamente accompagna il declino dei sistemi economici.

Mentre il governo degli Stati Uniti cerca disperatamente di gestire i costi crescenti dei suoi piani esteri e interni, ricorre a una versione moderna dello “svilimento della moneta” degli antichi. Il Federal Reserve System monetizza i deficit in grandezze in rapida crescita. Data la disoccupazione, i salari ristretti e l’eccessivo indebitamento personale, l’emissione di moneta non fluisce in investimenti reali ma piuttosto nei mercati azionari. L’inflazione è quindi diventata una realtà, alimentando un divario di ricchezza sempre più profondo. Ci assicurano che l’emissione di moneta non si sposterà mai su beni e servizi, provocando in tal modo la classica inflazione. Ci assicurano anche che la Fed controllerà l’eventuale minaccia di un’inflazione. Tali promesse e rassicurazioni mirano a prevenire ciò che, secondo i responsabili, può essere una terrificante possibilità.

L’assalto del 6 gennaio al Campidoglio ha reso una nazione turbata più consapevole delle già profonde divisioni sociali e della disgregazione della sua coesione sociale. Chi ha attaccato il Campidoglio ha reagito al declino del capitalismo opponendo una resistenza disperata al risultato elettorale, al liberismo politico, al multiculturalismo, al secolarismo e così via. Come Trump, hanno cercato di invertire il declino del capitalismo. Poiché la loro ideologia li rende ciechi di fronte al declino, la pensano diversamente. Colpevolizzano e quindi cercano di demolire il governo. Tuttavia, il governo degli Stati Uniti, attraverso l’oligopolio bipartitico nella politica statunitense, sostiene risolutamente il capitalismo nazionale. I due partiti si differenziano solo sul modo migliore per farlo. Man mano che il declino procede, nonostante gli sforzi per fermarlo, la frustrazione accumulata alla fine trabocca. Gli sforzi diventano estremi e peggiorano la situazione piuttosto che risolvere il problema. I membri del governo di Trump si sono spesso impegnati a distruggere i rispettivi dipartimenti e gli assalitori del 6 gennaio hanno tentato di fare lo stesso. Tale autodistruzione è un altro segno del declino avanzato del sistema.

Investire adesso nelle infrastrutture statunitensi a lungo trascurate potrebbe significare un altro fallimento uguale a quello degli aiuti esteri e di molte avventure militari statunitensi. La spesa federale coinvolta finisce sempre o alle società private per beni e servizi appaltati oppure va ai governi esteri, nazionali o regionali. Anche i governi beneficiari li utilizzano per contratti con società private. Le grandi corporazioni, ad esempio, svolgono la maggior parte dei lavori di manutenzione e ammodernamento delle infrastrutture statunitensi.

Le società incaricate impiegheranno a loro volta il denaro ricevuto proprio come tutti gli altri ricavi. Una parte del denaro andrà ai salari e agli stipendi dei dipendenti, ma la maggior parte sarà impiegato per “fare affari”. Tali spese includono stipendi elevati per il middle management e lussuosi pacchetti salariali per l’alta dirigenza, macchine per l’automazione, trasferimento di infrastrutture da aree con salari più alti verso aree con salari inferiori per migliorare i profitti, aumenti dei dividendi per gli azionisti, interessi e rimborso di prestiti aziendali e commissioni pagate a consulenti esterni (assunti per aiutare a pianificare la crescita aziendale, gli investimenti all’estero e a reprimere le spinte sindacali). In breve, le spese federali fluiscono nelle mani delle aziende che poi produrranno lo stesso sistema che ha trascurato le infrastrutture e ha rafforzato le disuguaglianze di reddito e ricchezza.

Il declino del sistema si riproduce perché i leader non riescono a vedere la struttura interna di produzione del capitalismo statunitense come il problema principale, figuriamoci cambiarla. Le fabbriche, gli uffici e i negozi sono quasi tutti divisi in una minoranza dominante di proprietari e consigli di amministrazione rispetto alla maggioranza dominata dei dipendenti. Tale struttura è fortemente antidemocratica. I datori di lavoro non sono responsabili nei confronti dei dipendenti. Sempre di più, soprattutto durante gli ultimi 50 anni, usano la loro posizione per arricchirsi a discapito dei dipendenti. Gli investimenti instabili della minoranza (guidate da un’incertezza irriducibile e da ciò che John Maynard Keynes chiamava “spiriti animali”) impongono cicli infiniti e costosi alla società. Le tensioni e gli antagonismi tra datori di lavoro e dipendenti sconvolgono e minano la salute fisica e mentale e la decantata “efficienza” del sistema ad ogni svolta.

Poiché i segni del declino del capitalismo statunitense vengono negati o male interpretati, spingono individui e gruppi a ricorrere ad atti sbagliati e disperati. Sono ciechi di fronte al problema strutturale di un sistema economico non più in grado di affrontare le sue contraddizioni. Così, il declino accelera, e corre come un treno su un binario verso un muro di pietra. La maggior parte dei conducenti e passeggeri non si accorgono dei segni, o li nota ma senza collegarli al loro problema di base: trovarsi su un treno in movimento verso un muro.

 

*Richard D. Wolff è professore emerito di economia all’Università del Massachusetts, ad Amherst e visiting professor al Graduate Program in International Affairs of the New School University a New York. Il programma settimanale di Wolff, “Economic Update”, è distribuito da oltre 100 stazioni radio e arriva a 55 milioni ricevitori tramite Free Speech TV. I suoi tre libri più recenti sono The Sickness Is the System: When Capitalism Fails to Save Us From Pandemics or Itself, Understanding Marxism, e Understanding Socialism.

Fonte: Independent Media Institute

Credito: Articolo realizzato nell’ambito di Economy for All, un progetto dell’Independent Media Institute. Traduzione dall’inglese di Rossella Crimaldi. Revisione di Thomas Schmid (Pressenza).