Oltre mezzo milione di persone invadono la capitale. Manganellate alla sede dei Pro Vita. Protagonisti i centri antiviolenza. Dalla rete Di.re. fino a Lucha Y Siesta, casa rifugio a rischio sgombero.
Di Shendi Veli – Il Manifesto
Alle 14.30, ora del concentramento, si fa trovare un vento freddo che non si sentiva da un po’ a spazzar via la lunga stagione calda. L’enorme conca del Circo massimo si arrende al sole e ai corpi che iniziano a invaderla da tutti i lati.
I numeri saranno come al solito dibattuti, tra la questura, i media e le solite approssimazioni. Ma chi c’era sa, e ad esserci erano tante e tanti.
Tra le persone che si affollano ci sono anche le cinque attiviste di Non Una Di Meno reduci di una mattinata in commissariato. Si erano presentate con megafono e striscione davanti alla sede della Rai, scrivendo sull’asfalto con il gesso bianco: «Nostro il dolore. Vostro lo share». Un’accusa ai media per come la violenza di genere viene raccontata, nel tentativo di “emozionare” a ogni costo passando sopra al rispetto della privacy delle vittime e lascia in secondo piano gli aspetti più sociali e politici.
Intorno alle 16 il Circo massimo si è riempito. Ci sono tutte le età, i generi, i colori, gli orientamenti e le prospettive possibili. Il camion delle organizzatrici è un ingombrante mezzo color argento. Alla guida c’è Monica, il nome scritto sopra il vetro e da subito idolo della folla. Prima di guadagnare l’asfalto le organizzatrici fanno un invito dal microfono: «Sediamoci a terra e facciamo silenzio». Sembra impossibile far arrivare il messaggio alle centinaia di migliaia spalmati attorno. «Proviamo a essere un corpo collettivo, essere marea significa muoversi insieme» . E il silenzio magicamente incombe. Dura poco meno di un minuto. Poi si alza all’unisono con un grido: «Insieme siam partite insieme torneremo, non una, non una, non una di meno».
Il corteo prova a partire, nella fatica già evidente di spostare una vera marea umana. Oltre 60 gli autobus organizzati da tutta Italia, ai quali si sono aggiunti i gruppi venuti in treno, in macchina, oltre a una partecipazione cittadina che è quella delle grandi occasioni.
I giovanissimi e le giovanissime sono la cifra di tutto. Tantissime le scuole : «Mentre facevamo lo striscione per venire qui alcuni ragazzi della classe ci hanno detto che ce lo avrebbero acciaccato e noi i abbiamo insultati, abbiamo fatto capire che abbiamo una voce» sono entusiaste di raccontarlo delle ragazze di un istituto agrario di Orvieto. «A scuola è difficile parlare di violenza, dicono sempre che non ci sono abbastanza fondi» continua un’altra. «Io che sto al quinto anno riesco a parlarne di più, soprattutto con la prof che è qui. Ma questo succede forse anche perché noi siamo un po’ femministe» azzarda, «Giusto un po’» ridono le altre.
La nota positiva è forse il grande numero di uomini presenti. Talmente tanti che subito si allargano e vengono richiamati dalle attiviste: «Per favore lasciamo l’apertura del corteo ai centri antiviolenza, a chi vive ogni giorno l’oppressione sulla sua pelle, maschi per una volta ascoltateci e fatevi indietro» apostrofano. L’intento è legittimo ma il risultato scarso, i maschi sono ovunque e non arretrano, un po’ per poca abitudine a farlo e un po’ perché confusi dal caos di gente intorno e forse anche dalla loro stessa presenza.
«Spero che sia l’inizio di un cambiamento» dice un ricercatore di fisica di 38 anni. È in piazza con altri due colleghi, di 30 e 25 anni. «Cerchiamo di riflettere su come ci poniamo anche dentro l’università, che è il nostro luogo di lavoro. Nel nostro dipartimento questo tema è sentito perché c’è una forte disparità di genere nel mondo scientifico» raccontano. «Qualcosa però si è mosso, piccole cose per ora. Ad esempio è stato segnalato un professore che alla fine di ogni lezione chiedeva solo alle ragazze se fossero sicure di aver capito» continuano. «Bisogna parlare, in maniera costante» chiosa il più giovane di loro.
I centri antiviolenza sono protagonisti della giornata. Sulla battaglia di Lucha y Siesta, casa rifugio e sportello antiviolenza della capitale, si concentrano i discorsi. Lo spazio è a rischio sgombero anche se due giorni prima del corteo il sindaco Gualtieri ha fatto una mossa per garantirne la salvaguardia. «Difenderemo Lucha» dice un’attivista: «Non solo in quanto centro di assistenza alle donne in difficoltà, ma come luogo di elaborazione politica».
L’elaborazione politica che passa anche dal nominare parole scomode come patriarcato, come femminismo. L’elaborazione politica persino di un lutto, come quello di Giulia Cecchettin, che a partire dalle parole della sorella Elena si è trasformato in un’occasione per una elaborazione collettiva. «Sono alla mia prima manifestazione» dice una ragazza del liceo romano Kant «Il caso di Giulia è stato come una pizza in faccia che mi ha fatto risvegliare». «A volte quando penso di conoscere un ragazzo nuovo ho una sensazione di paura e non va bene» aggiunge una compagna di scuola. Ma nonostante l’orrore della violenza patriarcale, questa piazza di Roma è felice e rabbiosa. «Ho sepolto la tristezza con le sorelle uccise» si legge su un cartello nero e fucsia.
«Transfemministe ingovernabili contro la violenza patriarcale» è scritto sul gigantesco striscione di apertura. E ingovernabile è stato questo 25 novembre. Talmente tanto che ha travalicato i limiti della forma corteo. Moltissime le persone che non riuscendo a raggiungere il carro di apertura si sono disposte lungo tutto il percorso, dal Circo massimo a piazza San Giovanni, passando per il Colosseo. Oltre al corpo principale, enorme, denso, rumorosissimo, che seguiva la testa ufficiale, altri mille rivoli umani si sono riversati per le strade, cantando cori, agitando cartelli, in una confusione urbana che più che a una manifestazione politica assomigliava a una vittoria ai mondiali.
«È andata così, oggi ci autogestiamo» riassume bene una signora elegante con il fazzoletto fucsia legato al polso. Ingovernabile al punto che sono arrivate anche le manganellate della polizia, una ragazza di Pisa è finita all’ospedale con la testa spaccata, dopo i tafferugli di fronte alla sede dei Provita, su viale Manzoni, dove alcuni manifestanti hanno fatto un’azione di protesta. A Piazza San Giovanni la testa del corteo, o meglio la principale delle tante teste, è arrivata intorno alle 19. Qui tra gli interventi, la musica e i balli si è cantata anche una canzone per Giulia. Lei anche forse a suo modo è stata ingovernabile, nelle sue scelte, nella voglia di liberarsi di una relazione, di laurearsi e chissà quanto altro ancora. Giulia è stata ingovernabile e a ricordarla c’è un cartello che spicca tra gli altri, con solo tre parole. «Giulia siamo noi». E questa è la novità.