Ieri è venuto a mancare Giorgio Napolitano, lo ricordiamo con alcuni estratti di una interessantissima intervista che rilasciò a La Stampa nel 2015, sul tema dell’Antifascismo e Liberazione.
«Credo che la saldatura generazionale ci fu nella partecipazione attiva alla fase conclusiva della lotta contro il fascismo, fino alla Liberazione. Un esempio è quello di Giorgio Amendola, che ebbe contatto diretto con i giovani ma che era legato alla cultura politica del padre e aveva fatto il grande salto dal liberalismo al comunismo, finendo per trasferire una componente liberale anche nella visione politica e culturale propria del Partito comunista.
«Ma è vero che l’eco dell’antifascismo passò pure attraverso un canale che in qualche modo fu aperto proprio dal regime, difficile dire con quanta consapevolezza e con quanto calcolo di convenienza, attraverso Bottai. Le sue responsabilità politiche generali non si cancellano, ma la rivista Primato rimane esempio di un modo nuovo, per i giovani di allora, di arrivare alla politica attraverso la cultura. Penso a Mario Alicata, allievo prediletto di Natalino Sapegno, a Giame Pintor grande germanista già da giovanissimo.
«Erano fondamentali alcune articolazioni dei Guf, i Gruppi universitari fascisti. Il Teatro Guf, i Cine Guf, i settimanali Guf diventarono luoghi d’incontro e discussione, e anche di qualche velleitaria malizia se si pensa che venne, sul settimanale Guf di Napoli, pubblicato addirittura un documento dell’Internazionale comunista… Nei Guf operavano cerchie ristrette, io feci parte di quella napoletana nella quale gravitavano una trentina di giovanissimi. Ricordo che nella stanzetta di uno di questi ragazzi, un poeta di origine armena, sentii leggere brani del Manifesto dei comunisti, che circolava perché era pubblicato in calce alla Concezione materialistica della storia di Antonio Labriola, disponibile ancora nei primi Anni Quaranta per iniziativa del binomio Croce-Laterza. Un libro che devo avere ancora da qualche parte.
«Questi giovani antifascisti cercavano anche il confronto con un interlocutore fascista. Si trattava di scegliere una persona che poi non andasse a denunciarci, e la individuammo in Ruggero Romano, che poi diventò storico di prima grandezza. Venne a discutere con noi, sostenendo posizioni antitetiche alle nostre: questa era la temperie. C’era dunque la possibilità di formarsi in maniera molto diversa dai padri. E cosa si leggeva in quel tempo? Ho incontrato tanti miei coetanei dell’epoca che in altre città e in altre università leggevano gli stessi libri, le poesie di Rilke tradotte per Einaudi da Pintor, gli scritti sulla rivoluzione di Pisacane, le Conversazioni in Sicilia di Vittorini, in poesia Montale soprattutto, e poi Ungaretti, Quasimodo, Alfonso Gatto…
La Resistenza come guerra civile o rivoluzione mancata?
«Naturalmente la tesi del fratricidio ha a che vedere con la tesi della guerra civile, illustrata da Pavone. Ma una cosa è fondamentale: Pavone è attentissimo a non porre le due parti sullo stesso piano. Una delle due aveva fondamentali ragioni storiche e ideali da far valere, e che devono sempre valere nel giudizio sulla Resistenza; l’altra parte è quella che arrivò all’asservimento totale ai nazisti con la Repubblica di Salò. Torno ancora una volta su Giame Pintor, del quale trovo ineguagliato il saggio sul 25 luglio, che si conclude con le parole “dopo una finta rivoluzione, quella fascista, potrà salvare l’Italia solo una vera rivoluzione”.
«Naturalmente c’è da intenderci sul concetto e sul termine di rivoluzione. Quest’idea, con tutte le indeterminatezze dell’epoca e della parola, era nella mente di parte dei combattenti. E c’era il mito più fuorviante di tutti, l’idea cioè della Resistenza che sarebbe stata rivoluzione in nuce e che fu tradita. In realtà anche il partito che aveva una visione di sé come partito rivoluzionario, cioè il Pci, aveva un leader il quale, quando a fine ’45 fa la sua grande relazione di quattro ore al primo congresso dopo la Liberazione, enuncia lo stesso programma di Giolitti: “rifare l’Italia”. Togliatti – è di lui che sto parlando – spiegherà poi che la rivoluzione è un processo molto graduale – da compiersi sul terreno democratico – delle strutture economiche e sociali.
Il progetto europeo
«Altra cosa è recuperare una prospettiva più ampia entro cui portare a un livello senza precedenti di coesione anche le diverse identità nazionali, cioè il progetto europeo. Che è assai poco sentito durante il processo di Liberazione. Lei cita il Manifesto di Ventotene, ma se è per questo il primo appello per gli Stati Uniti d’Europa viene da Luigi Einaudi, subito dopo la Prima guerra mondiale, senza attecchire, senza lasciare tracce profonde. In Parlamento dopo le elezioni del ’48 diventa di attualità la possibile scelta europeista, tanto che nel ’50 si discute in Senato una mozione federalista. Poi arrivano nel ’51 gli accordi tra i sei Paesi per dare vita alla Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, ma tutto si inceppa nella nascente Guerra fredda, e una parte dell’opinione pubblica, del mondo politico antifascista democratico e di sinistra, sbagliando, collega la proposta di integrazione europea all’egemonia americana. Quasi che i Trattati europei, a cominciare dal primo, fossero una proiezione del Patto Atlantico. Ci sono dei momenti di scontro molto intenso, perfino belli, tra De Gasperi e la sinistra che lui accusa di incoerenza perché, essendo per natura internazionalista, avrebbe dovuto essere la più aperta a una visione di integrazione europea.
«Ci vollero parecchi anni perché i socialisti arrivassero, alla fine degli Anni 50, all’astensione sui Trattati di Roma istitutivi della Comunità europea (Mercato Comune Europeo), e occorre arrivare alla fine degli Anni 60 perché il Partito comunista, soprattutto attraverso la sua partecipazione – che inizialmente era gli stata negata – al Parlamento europeo, sia pure non ancora eletto dai cittadini, entri nel vivo e operi nelle istituzioni».